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Plusvalenze calcio, quando Inter e Milan finirono in tribunale

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Non c’è nulla di nuovo in quanto stanno facendo i club della Serie A in questi tempi di crisi per cercare di aggiustare i bilanci. L’attuale caccia alle plusvalenze nel calcio, evocata anche dal presidente Zhang parlando dell’Inter, altro non è che la riedizione di quanto avvenuto negli ultimi anni quando il conto a questa voce è improvvisamente schizzato in alto più che raddoppiando dai 347 milioni di euro del 2016 agli oltre 727 del 2019.

Tutti dicono che non si dovrebbe fare, nessuno rinuncia alla scorciatoia aggiusta conto economico, pur nella consapevolezza che ogni plusvalenza che si realizza porta un beneficio oggi ma è come una cambiale messa in pagamento domani. Figc e Uefa osservano, non gradiscono, ma poco possono fare se non lanciare sporadici allarmi destinati, però, a restare grida alla luna.

Plusvalenze calcio italiano, quanti precedenti

Non è la prima volta che accade. Anzi. In quanto a plusvalenze, i precedenti sono così numerosi nei cicli ricorrenti del calcio italiano da rendere quasi impossibile una ricostruzione storica precisa anche se c’è una data che rimane a memoria e che rende impossibile o quasi qualsiasi intervento sanzionatorio. E’ il 2003, quello dell’inchiesta aperta dalla Procura di Milano (pm Carlo Nocerino) sui vorticosi scambi di ragazzi tra Inter e Milan. Ferraro, Livi, Ticli e Varaldi dall’Inter al Milan contro Brunelli, Deinite, Giordano e Toma sul percorso inverso: sconosciuti valutati a peso d’oro e spostati da una parte all’altra del Naviglio in un intreccio di plusvalenze da 14 e 12 milioni di euro.

Una vicenda finita sulle prime pagine dei giornali dell’epoca e girata anche alla Procura della Federcalcio non senza imbarazzo. Anche perché solo da qualche mese il Governo Berlusconi aveva confezionato per il pallone italico il regalo di Natale del Decreto “spalma-ammortamenti” grazie al quale le società più grandi (con l’eccezione della Juventus) avevano chiuso la precedente stagione delle iper valutazioni dei cartellini intervenendo sulla bolla dei propri bilanci e ottenendo la concessione di spalmare in dieci anni le relative svalutazioni da centinaia di milioni di euro. Provvedimento che poi sarebbe stato cassato dalla Commissione Europea e ridotto da 10 a 5 esercizi di bilancio.

Plusvalenze, le pessime abitudini del calcio italiano

L’inchiesta della Procura di Milano rappresentò allo stesso tempo un tentativo di fare luce sulle pessime abitudini del calcio italiano e la certificazione di margini d’intervento limitati. Perché alla fine, dopo due anni di indagini con sullo sfondo il macigno dell’accusa di falso in bilancio, il Gip milanese Di Lorenzo mandò tutti prosciolti – club e dirigenti – perché il fatto “non costituiva reato”. Quasi una resa al sistema. Un po’ perché ‘gonfiare’ le valutazioni di calciatori è qualcosa di difficilmente certificabile (chi garantisce che un ragazzo venduto a peso d’oro non possa poi diventare un campione o, comunque, un buon affare di mercato?) e poi perché per i legali di Inter e Milan fu sufficiente dimostrare che alla fine i padroni delle società avevano comunque ripianato le perdite.

Con tempi e modi diversi, magari non rispettando il calendario dei controlli delle autorità sportive, ma facendo venire meno il presupposto del falso in bilancio. E affermando il principio che la plusvalenza non è reato, anche se sospetta, purché non sia fittizia, cioè un numerino iscritto a bilancio senza alcuna copertura futura.