Home Politics La normalità del “governo dei Migliori”: il meglio e il peggio dell’era Draghi

La normalità del “governo dei Migliori”: il meglio e il peggio dell’era Draghi

La normalità del “governo dei Migliori”: il meglio e il peggio dell’era Draghi

Perché leggere questo articolo? L’Italia vive tempi eccezionali, con sfide enormi per l’intero paese. Era illusorio pensare che un solo uomo, anche fosse Mario Draghi, potesse essere l’unica soluzione. Una lezione che la nuova presidente del Consiglio Giorgia Meloni deve ben tenere a mente. A partire dalla comprensione di cosa ha funzionato e cosa meno in questi mesi di “governo dei Migliori”.

Mario Draghi lascia il governo ed è tempo di giudicarne l’operato. Resta l’indubbio risultato del  governo della campagna vaccinale e del via libera al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ma molte aspettative si sono rivelate esagerate. Completando con il passaggio della campanella a Giorgia Meloni il suo periodo di venti mesi al governo Mario Draghi si è congedato da Palazzo Chigi. E ora che si è conclusa la complessa e turbolenta fase dell’esecutivo di unità nazionale è possibile trarre dei bilanci definitivi.

Il governo dei normali

Che governo è stato quello  presieduto dall’ex governatore della Banca centrale europea? Un esecutivo in larga parte in linea con quelli che lo hanno preceduto. Da un lato, nessun “governo dei Migliori”, nonostante i peana di molti media e intellettuali che indicavano in Draghi un uomo della Provvidenza. Quasi un riscattatore dei mali atavici del Paese: debito elevato, bassa crescita, scarsa credibilità globale.

Dall’altro, però, come ha ricordato Mattia Marasti su Valigia Bluil governo di Mario Draghi è stato accusato di essere un governo che porta il paese sulla strada della rovina, un liberista spietato” dai detrattori più accaniti. Con buona pace di questi critici (tra cui si annoverano pensatori del calibro di Tomaso Montanari assieme alla magmatica galassia populista e no-vax) neanche il “Draghistan” è divenuto realtà.

L’era Draghi? Drammatizzata dalla narrazione

“Entrambe queste visioni in realtà non fanno altro che sposare una linea drammatica rispetto al governo Draghi, un governo della provvidenza, in un caso distruttivo, nell’altro rigenerativo”, commenta Marasti. “La verità, ben più banale, è che il Governo Draghi è stato né più o meno alla pari dei suoi predecessori”. Su questa linea concordiamo e, anzi, possiamo dire che la particolarità del governo Draghi e col senno di poi un risultato indiretto del suo agire è stato quello di riportare la normalità nell’emergenza.

L’ampiezza della maggioranza di unità nazionale ha prodotto il ritorno della politica e delle lotte senza quartiere tra partiti. Accelerando in sostanza la normalizzazione che è stata dettata dall’azione di Draghi fino al voto sul Quirinale e poi contro lo stesso cesarismo del premier da febbraio in avanti. Veniamo dunque a analizzare il “Best of” dell’era Draghi e, sul fronte opposto, i punti su cui l’esecutivo ha deluso.

I successi di Draghi: vaccini e Pnrr

Vaccini e Pnrr: le due maggiori vittorie di Draghi nel 2021 sono state legate al conseguimento degli obiettivi su cui si basava la chiamata da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Salus rei publicae suprema lex esto. Quando il 3 febbraio dell’anno scorso Mattarella ha chiamato Draghi per formare il nuovo governo ha suonato definitivamente la campanella facendo capire a tutti, nei partiti e fuori, che la ricreazione era finita. Il nuovo esecutivo nasceva dichiaratamente con fini emergenziali: in primo luogo, risolvere il problema della campagna vaccinale, affidata alla professionalità del generale Francesco Paolo Figliuolo in luogo di Domenico Arcuri. Risultato centrato in pieno già a metà 2021.

In secondo luogo, elaborare i progetti del Recovery Fund. In quest’ottica, il Piano nazionale di ripresa e resilienza nella pianificazione è andato oltre gli obiettivi legati a Next Generation Eu. Il Pnrr è stato strutturato includendo anche investimenti strategici complementare in ossequio alla linea keynesiana perorata da Draghi contro la crisi del Covid-19 ed ha ricevuto pieni voti dall’Unione Europea. Infine, per un periodo limitato Draghi è riuscito a ricucire il clima conflittuale dominante nel Paese richiamando le forze politiche e sociali alla necessità di un nuovo sforzo collettivo nazionale per traghettare l’Italia oltre l’emergenza. Ma proprio su questo, come vedremo, in seguito la capacità d’azione del governo si è incrinata.

Nomine e sussidi

Draghi ha, inoltre, normalizzato il caos venutosi a creare sui servizi segreti nominando alla guida del Dis l’ambasciatrice Elisabetta Belloni e sottraendoli alla contesa tra i partiti prima che in questo caso le formazioni politiche li riportassero nella querelle quotidiana proponendo la Belloni stessa come ipotesi per il Colle. Anche la prima tornata di nomine alle partecipate, che ha portato Dario Scannapieco alla guida di Cassa Depositi e Prestiti, ha avuto esiti positivi.

A merito di Draghi va anche la promozione da parte del suo governo dell’Assegno unico per la famiglia e la natalità come strumento unificato di welfare favorevole a una platea più ampia di giovani madre destinatarie, spesso a basso reddito. Draghi ha identificato nella sussidiarietà basata sulla famiglia un importante strumento di welfare e, parlando assieme a Papa Francesco agli Stati Generali della Natalità, toccato con mano  la necessità di ovviare al drammatico problema dell’inverno demografico. A indubbio merito di Draghi vi è la concezione di ritenere la famiglia come un bene collettivo essenziale; che può e deve essere tutelato dallo Stato.

Una buona politica industriale

Sul fronte della politica industriale, Draghi ha avuto, come vedremo nel secondo punto, una serie di scivoloni, ma un indubbio successo nell’ottenere il maxi-investimento di Intel in Italia per il polo europeo di produzione di chip del colosso americano sfruttando il lavoro da apripista del Ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti e le forti relazioni con gli Usa. Draghi e Intel  hanno scelto la cittadina di Vigasio nel Veneto come sito dove far nascere una nuova fabbrica per il confezionamento e l’assemblaggio di semiconduttori. L’investimento iniziale di circa 4,5 miliardi di euro dovrebbe permettere l’avvio delle attività dello stabilimento tra il 2025 e il 2027 e la creazione di 1.500 posti di lavoro interni più altri 3.500 per fornitori e partner, stima Intel.

In campo energetico, lo sforzo importante profuso da Draghi in campo diplomatico gli ha permesso di accelerare la trasformazione del mix di importazione del gas nazionale, riducendo il predominio della Russia. L’Algeria, ai sensi degli accordi firmati da Draghi nella capitale Algeri, invierà all’Italia 4 miliardi di metri cubi aggiuntivi di gas. Le esportazioni algerine di gas verso l’Italia potrebbero raddoppiare nel 2024, raggiungendo quota 18 miliardi di metri cubi annui. Per quanto riguarda l’Egitto, invece, le esportazioni di gas naturale liquefatto dovrebbero eguagliare (entro la fine del 2022) la quota della Russia.

I flop del “Migliore”

Ma in campo energetico la questione si fa più spinosa. Se si analizzano le responsabilità di Draghi nel non accorgersi dell’incipiente tsunami energetico nella seconda metà del 2021; e di rendersene conto come problema politico solo sul finire dello scorso anno. Salvo, come abbiamo scritto in tempi non sospetti, rendersi conto che l’inflazione potesse travolgere l’Italia e meditare il rifugio dorato al Colle poi non accordatogli dai partiti.

In campo di politica energetica, poi Draghi è stato altalenante sullo sfruttamento delle fonti nazionali di gas e assieme al Ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani non si è reso conto dei problemi legati al mercato europeo Ttf, proponendo un piano di tetto ai prezzi ridotto e fuori tempo massimo dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

Gas e bollette

L’assenza di azioni incisive sul caro-bollette prima della guerra e una sostanziale ignavia hanno anche aggravato i problemi per l’Italia quando la Bce ha annunciato la fine dai piani di acquisti titoli anti-pandemia ed è tornata ad alzare i tassi. Indebolendo dunque la rete di difesa del debito italiano. Nell’era Draghi lo spread è tornato a veleggiare attorno quota 200. Dal 13  febbraio 2021, giorno di insediamento del governo Draghi, alla fine dell’unità nazionale a luglio il tasso di interesse del Btp, ovvero il rischio scontato dagli investitori che puntano sull’Italia, è quintuplicato. Da un tasso medio dello 0,643% di fine gennaio 2021 si è giunti al 3,5% di fine luglio 2022. Nessun effetto Draghi, come ha anche fatto notare con una punta di malizia Carlo Cottarelli in una recente intervista.

In campo di politica economica e industriale, nessuna delle grandi crisi aperte a inizio 2021 è stata risolta dal governo Draghi. Alitalia, divenuta Ita, non ha visto completato il processo di privatizzazione che ora passerà in mano alla Meloni; Monte dei Paschi di Siena ha il capitale praticamente azzerato e appare decotta; Tim ha visto il tentativo di scalata di Kkr; rintuzzato ma ora è terreno di scontro ove si muovono Cdp, la francese Vivendi, Elliott e diversi altri investitori. Autostrade per l’Italia è stata ricomprata; a prezzo di un esborso monstre da 9 miliardi di euro andato alla famiglia Benetton; e della condivisone del potere gestionale da parte di Cd con i fondi Blackstone e Macquaire.

Nomine e tecnici

Difficoltà si sono avute anche sul fronte della gestione delle nomine 2022 in cui Draghi, agendo in solitaria, ha sostituito da Snam e Fincantieri ottimi manager come Marco Alverà e Giuseppe Bono. In questa occasione si è vista la problematicità del “metodo Draghi” fondato sulla disintermediazione e sull’autonomia decisionale.

Nella fase finale del suo governo, poi, Draghi ha accentuato i tratti da uomo solo al comando provando a tirare dritto su ogni dossier. Il tecnopopulismo, dunque, si è riaffacciato nella politica italiana attraverso la leadership istituzionale di Draghi; che ha teso ad inclinare verso forme di post-parlamentarismo e antipolitica. Una manovra complessa e controproducente per un leader già di per sé incardinato su un mandato ampio e sicuro.

Draghi, l’antipolitico

Quello del 20 luglio scorso, pronunciato dopo lo strappo di Giuseppe Conte e del Movimento Cinque Stelle, è stato in particolare un discorso senza alcun tentativo di ricerca di un compromesso: Draghi ha fatto intendere che se le forze politiche avessero voluto continuare con il governo da lui presieduto avrebbe costruito da solo, contro ogni prassi costituzionale, il programma e su di esso non si sarebbe potuto negoziare.

Il discorso ha anche segnalato un rapporto diretto, antipolitico, tra Draghi e la società civile italiana. Il Presidente ha fatto perno per la sua dura reprimenda consapevole dell’appoggio di cui godeva tra gli interessi organizzati. Causando in questo caso una rivolta della politica che ha drammatizzato la crisi e accelerato la sua caduta. Favorita dalla sottovalutazione dell’inquietudine sociale e economica venutasi a creare dopo la guerra in Ucraina, che Draghi, colpevolmente, non ha compreso.

Più leader che politico

Più leader che politico Draghi ha lasciato dopo esser stato travolto dagli eventi. Il suo governo è durato una ventina di mesi; poco più di entrambi gli esecutivi di Conte, con una bilancia equilibrata tra successi e debacle spesso molto rumorose. L’eccezionalità, per l’Italia, è quella dei tempi e del rischio di un declino sistemico. A cui è illusorio pensare che un solo uomo possa contrapporre qualsivoglia soluzione. Una lezione che Giorgia Meloni deve ben tenere a mente.