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“Povere creature” di Lanthimos: l’occasione persa del cinema woke

"Povere creature" di Lanthimos: l'occasione persa del cinema woke

Perché leggere questo articolo? Recensione “dal campo” di “Povere creature”, da poco al cinema in Italia. L’ultimo film di Lanthimos ha picchi di notevole interesse ma devia, verso il finale, verso gli stereotipi woke. Oramai fonte di appiattimento culturale totale.

Chi legge le mie intemerate sulla settima arte è ormai annoiato dalla mia continua geremiade sulla stanchezza di certo cinema d’oltreoceano, sulla sua scarsa capacità di innovare (intendiamoci, quando ci mostra cose nuove produce capolavori del calibro di The Whale, che però la critica sembra apprezzare meno del meritato… transeat).

Troppo spesso il cinema americano appare il cinema del “già visto”, il cinema del polpettone. Piatto gustoso, ma che nasce come riciclatore di avanzi del giorno prima. Ecco: fosse anche solo per questo, “Povere Creature” di Yorgos Lanthimos meriterebbe encomi. Il cineasta greco mette in scena un’opera potente, dalla straordinaria sceneggiatura, efficace specie nelle fasi comico-demenziali, in cui si ride e si ride di gusto, e ottimamente interpretata.

I pregi del film

Da uno dei principali innovatori del cinema di oggi non ci aspettavamo di meno. L’operazione riesce a Lanthimos proprio in virtù del suo continuo omaggiare la letteratura. La storia, praticamente una riedizione contemporanea di Pinocchio, del resto nasce dal mondo letterario:è tratta dal romanzo del britannico Alasdair Gray. Soprattutto, Lanthimos omaggia la storia del cinema traendone continui spunti nuovi. Lanthimos unisce infatti, reinventandole, le atmosfere “weird” del miglior Therry Giliam, l’estetica – e la fotografia – del sottovalutato gioiellino francese “La città perduta” (1995, di Jeunet e Caro), riferimenti a tanto altro cinema crepuscolare, horror o comico sugli scienziati pazzi e, almeno nella scena del ritorno alla vita della protagonista, a Metropolis di Lang.

Tutto benissimo dunque? No, per niente. Vi è, nel corso di tutto il film, un certo moralismo di fondo, proprio come in Pinocchio. Ma come, direte voi: un film nel quale sembra che la protagonista non abbia altro modo di scoprire il mondo che non copulando con chiunque le capiti a tiro fino al prostituirsi per trenta franchi, sarebbe un film moralista? Ebbene sì, ma quella che per le prime due ore è solo una sensazione (troppo “buona e a posto” la protagonista, troppo cattivo e cinico il mondo che la circonda) nell’ultima, irritante mezz’ora diventa una certezza. Il film riserva un finale politicamente corretto davvero stucchevole e insipido, fatto per strappare applausi di un pubblico americano in cerca dell’ennesimo messaggio “woke”.

Tutto il “woke” del film di Lanthimos

Buoni e svegli da una parte: le donne e i neri. Cattivi e tonti dall’altra: gli uomini bianchi, origine e causa di ogni male del mondo, che possono redimersi solo diventando passivi camerieri come il cornuto-contento marito della protagonista, il Dottor McCandles. Un film fatto benissimo che… sfocia nel piattume woke,

Il messaggio di fondo di questo Pinocchio (o Pinocchia?) moderno sembra essere chiaro. Si può riassumere così: uscite di casa e scoprite il mondo, scopritelo benissimo. Fatelo accoppiandovi con chiunque e solo poi iniziando a leggere e dandovi una cultura. Cultura da sviluppare molto, ma molto meno bene. Tutto ciò che farete, sembra essere l’invito del film agli spettatori, lo farete avendo l’io come principio, come fine e come mezzo, come orizzonte un totale individualismo.

Il “neoliberismo fatto film” sbarca al cinema

Pazienza se la protagonista parla di “migliorare il mondo”: qui siamo al neoliberismo fatto film. Soprattutto, nel cinema woke che “Povere Creature” esprime gli uomini si dividono tra un 50% di possessivi tiranni (il padre-Geppetto, che concepisce l’amore, a propria volta, come possesso e autosoddisfazione, e il Generale, un ributtante despota crudele) e un 50% di imbecilli: l’amante seduttore, un bambino viziato ed egocentrico, e il marito, il medico interpretato da Ramy Youssef, un tonno in scatola monoespressivo per tutta la durata della pellicola che concepisce l’amore al contrario del Generale. Ovvero non come  assoluto possesso ma assoluto spossesso, anche di sé, come totale rinuncia ad ogni orgoglio, ogni dignità. Insomma, uno zombi passivo che si fa insultare per tutto il film, è lieto che la nubenda si sia prostituita con mezza Parigi e finisce a fare, nell’ultima scena, il cameriere

È ovvio che, in quanto uomo, mi sono sentito non preso in giro, non offeso, ma umiliato – e non tanto dal film, quanto dalla soddisfatta approvazione del pubblico femminile in sala: signore, davvero ci vedete così? Davvero il vostro immaginario classifica noi vostri mariti/fidanzati/compagni/colleghi/fratelli/nonni/figli/amici li classificate – o li volete classificare così? La domanda non è, a questo punto, “cosa vi abbiamo fatto”: è piuttosto “cosa vi state facendo”?