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Quirinale, the last dance dei ‘ragazzi del 1992’

Quirinale, the last dance dei ‘ragazzi del 1992’

Roma è eterna, e eterni possono essere diversi “ritorni” di figure di potere fuori dal tempo all’ombra della Città Eterna. Il 2021 e l’ascesa del governo Draghi hanno segnato un processo che la partita per il Presidente della Repubblica  di prossima apertura è destinato a completare. Ovvero il ritorno delle redini dello Stato nelle mani dei protagonisti della transizione tra la Prima e la Seconda Repubblica.

Quirinale, la ‘vecchia guardia’ rimette in riga i giovani leoni

Giuliano Amato, Silvio Berlusconi, Franco Bernabé, Pierferdinando Casini, Massimo D’Alema, Mario Draghi, Francesco Giavazzi, Gianni Letta, Paolo Scaroni: le cronache quotidiane da mesi vedono alla ribalta figure che sono di una o due generazioni precedenti quella dei “giovani leoni” che hanno imperversato nella politica italiana negli anni precedenti. Da Matteo Renzi a Giuseppe Conte, da Luigi Di Maio a Matteo Salvini tutti sono stati, a tempo debito, rimessi in riga dalla vecchia guardia. Il Quirinale non sarà una partita per giovani o giovanissimi: sarà piuttosto l’ultima sfida per i “ragazzi del Novantadue” e per l’apparato di potere che si è strutturato dopo il tramonto della Prima Repubblica.

Terza Repubblica? No, la ricostruzione della Repubblica post Covid

Coloro che inaugurarono la Seconda Repubblica governando all’era dell’esecutivo di Carlo Azeglio Ciampi, delle privatizzazioni, di Maastricht, del passaggio verso la moneta unica, di Tangentopoli, dell’assalto stragista di Cosa Nostra allo Stato, ovvero nella Grande Tempesta seguita al brusco impatto tra l’Italia e la globalizzazione, vogliono finire il lavoro. Seppellita ogni velleità di “Terza Repubblica”, la partita per il Quirinale sarà una sorta di derby tra le varie cordate che si sono divise il potere dopo quegli anni tumultuosi. In palio la possibilità di ridisegnare le traiettorie dello Stato dal colle più alto della Repubblica nell’era della Ricostruzione post-Covid.

Mario Draghi, erede di Carli e Ciampi chiamato a “rimettere ordine”

Mario Draghi lo sa bene. È l’erede diretto di Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi; è stato il pesce-pilota delle privatizzazioni (invero più ordinate tra quelle compiute) interne al Ministero del Tesoro di cui era direttore generale in quegli anni caldi; è stato chiamato come “riserva della Repubblica” per, Amato dixit, “rimettere ordine” alla guida del governo dopo il naufragio del Conte-bis. Lungi dall’essere un redivivo Cincinnato, vuole proseguire la sua agenda dal Quirinale dopo aver accentrato su una stretta cerchia di fedelissimi i processi di consulenza sulle nomine per apparati, partecipate, ruoli chiave. Bernabé, massimo boiardo di Stato tra i ragazzi del Novantadue, e Scaroni, tra i suoi successori all’Eni, sono stati assieme ad Amato i suoi maggiori consiglieri informali. Nell’apparato di Palazzo Chigi domina invece lo zar delle nomine, Francesco Giavazzi. La forza di Draghi è essere dentro il sistema, ma questo rappresenta anche la sua debolezza in una fase in cui a decidere saranno un Parlamento e una politica mai anarchici come in questa fase.

Le mosse di D’Alema all’interno della battaglia di potere

La mossa di Massimo D’Alema, entrato a gamba tesa sul premier “nonno al servizio delle istituzioni” e sull’ipotesi di una sua ascesa al Colle, mostra la forza di una battaglia di potere che ha al centro figure capaci di essere referenti degli ambienti euroatlantici  e di ben rodati “partiti” interni alle istituzioni. D’Alema vuole deviare la corsa di Draghi verso il Colle, impedirgli l’uscita da Palazzo Chigi, costringerlo a pagare la cambiale del confronto con la nuova normalità post-Covid che riserverà inflazione, rischi recessivi, sfide sociali . In un concetto, demolirne il già logoro mito di inviolabilità dopo che Draghi, appoggiandosi ai suoi fedelissimi, ne ha di fatto azzerato il partito nelle istituzioni.

Il milanese Berlusconi resta a tutt’oggi un alieno

Ironia della sorte, oggigiorno la maggiore garanzia di D’Alema verso il freno  all’ipotesi di Draghi al Quirinale è il suo storico rivale, Silvio Berlusconi. Il Cavaliere vive, forse per l’unica volta nella carriera, l’adrenalina di potersi giocare quelle carte per il Quirinale inseguito a lungo dal 1994 ad oggi. Nella sua partita c’è il simbolo di una sfida portata da un uomo che è stato potente, temuto, studiato, ma mai accolto pienamente nelle cerchie dei “ragazzi del Novantadue” cui, di fatto, scippò il compito di governare lo Stato con la discesa in campo del 1994.

Berlusconi ha mediato più volte con attenzione tra questi partiti: Draghi gli deve la nomina alla Banca d’Italia, l’ascesa alla Banca centrale europea e una fetta importante del mandato pieno di governo conferitogli un anno fa; Amato lo ha sempre visto come un importante partner con cui dialogare ed era la prima scelta del Cav per il Colle nel 2015; Scaroni è stato nominato ad dell’Eni nel 2002 proprio dal governo Berlusconi II, inaugurando una governance che prosegue tuttora con Claudio Descalzi. Ciononostante, il meneghino Berlusconi appare in quest’ottica tutt’oggi un alieno, meno addentro a queste cerchie di potere e influenza in quanto capace di coltivarne una tutta sua personale. Avente il peccato originale di non essere centrata sulla Capitale. Ma il rapporto di Berlusconi col Paese reale e con la politica politicante lo aiuta a tenere il più compatto possibile il centrodestra e i suoi voti, oggigiorno tutto fuorché disponibili a un’eventuale candidatura Draghi a cui lui solo potrebbe, ad ora, dare l’assenso finale.

Gianni Letta, il compromesso per la continuità dello status quo

Il piede del berlusconismo nel potere profondo della Repubblica ha, in quest’ottica, un volto ben definito, quello austero di Gianni Letta. Eminenza grigia del potere romano. Pontiere del leader di sempre, forse nelle prossime settimane, ci dice una voce vicina al Quirinale ben informata, addirittura possibile candidato di compromesso. Letta interpreta una visione del Colle che non è quella neo-gollista di Draghi ma nemmeno il “gran premio della montagna” verso cui scattare immaginata da Berlusconi. “Se l’ideale di Gianni Letta è la forma dello Stato, se il «salvagente della forma» può diventare il salvagente della nave dello Stato, qual è il suo contenuto? Si tratta anzitutto del suo semplice mantenimento, che è esso stesso un valore: la necessità che ci sia la presenza dello Stato, o che, più prosaicamente, la dispersività degli Stati dell’Italia possa essere riportata a un linguaggio comune”, scriveva nel 2019 su Limes Alessandro Aresu in un’interessante lettura del cursus honorum dell’ex direttore del “Tempo” e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

“Tale linguaggio deve avere una, seppur vaga, identità, nonché una sede. Si tratta del linguaggio dell’apparato della sicurezza, in cui le diverse anime del potere italiano si ritrovano, convergendo nel Quirinale. Nella visione lettiana, ogni conflitto politico col partito del Quirinale va smussato: esso prevale sulle altre strutture dello Stato perché, nel mandato settennale, custodisce la lunga durata in un Paese dove la politica resta fragile nella capacità di domare il tempo”. Mai quanto adesso tale lettura è vera.

E se alla fine Letta si mettesse in proprio?

E le mosse dell’86enne Letta appaiono un simbolo della complessità della partita quirinalizia in corso. Un gioco per adulti, un torneo delle ombre che sarà redde rationem tra le cordate che mirano, trent’anni dopo, a finire dopo la pandemia l’opera di consolidamento e ristrutturazione dello Stato nell’era della globalizzazione. Letta si muove per favorire la corsa di Berlusconi ma, più volte, lo si è dato in visita a Palazzo Chigi dal vecchio amico Mario Draghi. Inoltre, è zio del segretario dem Enrico Letta e parla attentamente con Goffredo Bettini, dalemiano doc e orfano di Giuseppe Conte nel Partito Democratico, per preparare il terreno a un eventuale piano B post-Berlusconi al centro-destra, capace di coinvolgere per il Quirinale altre figure simbolo della politica figlie di quella stagione: Casini, Amato o Marcello Pera sono i nomi più ricorrenti, ad esempio.

Ma in fin dei conti l’eminenza grigia del berlusconismo, il pied-a-terre del Cavaliere nel potere romano potrebbe, ipotesi non da escludere, finire per lavorare per sé stesso. Come mediazione finale tra le varie cordate alla scalata della Repubblica. In maniera simile a quanto sempre fatto, nel silenzio dell’anticamera dei salotti del potere. Attivi più che mai nella grande partita per il Colle in cui i giovani protagonisti del presente sembrano spettatori incapaci di poter giocare le loro carte.