Home Politics La vendetta di D’Alema: “blindare” Draghi a Palazzo Chigi

La vendetta di D’Alema: “blindare” Draghi a Palazzo Chigi

La vendetta di D’Alema: “blindare” Draghi a Palazzo Chigi

Massimo D’Alema ritorna in campo e a poche settimane dal voto per il Quirinale ha fatto parlare di sé per una dura sortita contro Mario Draghi. La recente uscita del “Lider Massimo” sulla mancanza di democrazia nel processo molto discusso nei media e nella politica che vedrebbe l’attuale presidente del Consiglio traslocare al Colle facendosi sostituire dal Ministro dell’Economia, draghiano tra i draghiani, Daniele Franco (“Alexa” del premier, secondo i commentatori più maligni a Roma) ha riaperto un duello sotterraneo che prosegue da tempo.

L’ascesa dei dalemiani durante il Conte II

Draghi contro D’Alema: si potrebbe riassumere così una parte importante della storia della lotta di potere che si è consumata dopo la fine del governo giallorosso, il disarcionamento di Giuseppe Conte, il ridimensionamento del Movimento Cinque Stelle, la caduta di Nicola Zingaretti dalla segreteria del Partito Democratico. Nella fase di uscita dalla prima quarantena nella primavera 2020 D’Alema aveva preso una crescente influenza in seno a un governo Conte II dominato dall’uomo solo al comando di Palazzo Chigi e in seno al quale aveva portato diversi suoi fedelissimi già facendo sponda nel cerchio magico contiano del centrosinistra formato da Zingaretti, dal super-consigliere Goffredo Bettini e dai “compagni” di Liberi e Uguali. Draghi, dal febbraio 2021 in avanti, ha gradualmente smantellato la sua rete.

Dalemiano doc è Bettini, che fu regista del ritorno dem al governo; a lui legato il Ministro (ora sottosegretario) degli Affari Europei Enzo Amendola; antico sodale dell’ex premier Roberto Gualtieri, che prima di essere nominato ministro dell’Economia e venire eletto sindaco di Roma è stato professore di storia, vicepresidente dell’istituto Gramsci, entrando in direzione Ds nel 2007 proprio come un fedelissimo di D’Alema. Nella fondazione Italianieuropei, stato maggiore della corrente di potere dalemiana, Gualtieri ha giocato a lungo un ruolo di primo piano; sui numeri della rivista della fondazione, negli anni scorsi, abbondavano gli articoli del Ministro del Sud Giuseppe Provenzano e, notano Gli Stati Generali, anche il ministro della Salute Roberto Speranza gli è molto vicino, “avendo seguito il leader Massimo anche fuori dalle colonne d’Ercole, avendo lasciato il Pd e seguito la scissione che ha portato alla nascita di Leu”.

E deve a D’Alema l’ingresso nella cerchia dei boiardi di stato anche l’ex supercommissario all’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri. D’Alema è inoltre, come Conte,  vicino all’ex amministratore delegato di Cassa Depositi e Prestiti Fabrizio Palermo e tramite i suoi legami con Ernst&Young ha propiziato la nomina di due altri boiardi di Stato di peso,  il presidente di SACE Rodolfo Errore e l’ad di WeBuild Donato Iacovone.

L’era Draghi ha cambiato tutto. Ma D’Alema può vendicarsi

L’era Draghi ha cambiato tutto: fuori gioco Bettini e lo schema contiano giallorosso che valorizzava il peso di D’Alema, Draghi ha ridotto il peso di Speranza, retrocesso Amendola, sostituito Gualtieri col fedelissimo Franco, Provenzano con la forzista Mara Carfagna, Arcuri con il generale Francesco Figliuolo, Palermo con il suo ex collaboratore al Tesoro Dario Scannapieco. Un repulisti che la prossima stagione di nomine potrebbe completare inserendo SACE e WeBuild nella partita.

Ma D’Alema ha potere e influenza e la sortita sul Colle giunge nel momento migliore per servire il piatto della vendetta nella maniera in cui più preferisce offrirlo Baffetto: freddo e inaspettato. In primo luogo D’Alema ha unito il suo invito a rientrare nel Partito Democratico all’attacco a Draghi, sobillando dunque la dialettica interna; ha agito nelle ore in cui Giuseppe Conte e M5S aprivano addirittura alla riconferma di Sergio Mattarella e in cui il centrodestra lavora a un’opzione comune che non sembra avere il volto dell’ex governatore della Bce. Soprattutto, D’Alema ha parlato pochi giorni dopo che Draghi, per citare Piccole Note, si è “sparato sui piedi” compiendo il rischioso passo di candidarsi, nemmeno troppo velatamente, al Quirinale senza trovare una levata di consensi in suo onore ad accoglierlo.

Le mosse di D’Alema viste da fuori

A livello internazionale, inoltre, le parole di D’Alema difficilmente passeranno inosservate. E questo ci invita a riflettere su un’altra convergenza legata alla sfida per la Presidenza della Repubblica, quella geopolitica e geo-economica. Su cui in questi giorni sono emerse diverse chiavi di lettura: il professor Edward Luttwak ha ad esempio accusato D’Alema di esser portavoce dei desiderata della Cina, di cui è attento ascoltatore e conoscitore, e di voler sabotare l’ascesa di Draghi al Colle per minare l’atlantismo del suo esecutivo.

Ma al contempo il partito dalemiano nelle istituzioni ha attenti agganci con il mondo di Oltre Atlantico e non c’è da escludere che D’Alema interpreti, in fin dei conti, quelli che sono i desideri di buone parti del mondo finanziario ed economico anglosassone e americano di cui del resto l’azienda alla quale presta le sue consulenze, EY, fa parte: in questa chiave di lettura i referenti Usa, in seno all’attuale amministrazione democratica, e i loro alleati vogliono Draghi a Palazzo Chigi, non al Quirinale, nella consapevolezza che la “dottrina Mattarella” abbia blindato la fedeltà euroatlantica del Paese e che serva piuttosto difendere l’attuale collocazione della coalizione di governo italiana.

D’Alema e la vendetta migliore su Draghi

Ragionamento di cui D’Alema non avrebbe esitato a farsi garante per riprendere attenzione e visibilità in mondi ben conosciuti da lui dopo che l’establishment progressista e democratico aveva sonoramente bocciato il suo ex protegé, Giuseppe Conte. Parliamo, chiaramente, dell’esatto opposto di quanto vuole Draghi, timoroso delle “ombre del domani”, della corsa dell’inflazione  e delle minacce alla ripresa che il 2022 presenterà. Per D’Alema la vendetta migliore su Draghi potrebbe non tanto essere sbarrargli la strada del Colle quanto piuttosto impedirgli l’uscita da Palazzo Chigi nel periodo più difficile del suo governo accelerando la querelle sul Colle e spingendo l’emersione di candidati alternativi e solidi. Una mossa in tutto e per tutto dalemiana come non se ne vedono da diversi anni. Passano gli anni, ma Baffetto resta affetto.