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Pd al voto senza leader: cosa insegnano i precedenti

Pd al voto senza leader: cosa insegnano i precedenti

Perché questo articolo potrebbe interessarti? La sconfitta del Pd in Lombardia e nel Lazio è stata imputata anche all’assenza di un segretario nel pieno delle sue funzioni. In realtà la transizione senza leader dei dem, paragonata ad altri casi della storia recente italiana, non è poi così lunga. 

Il Pd ha affrontato il voto delle recenti regionali senza un segretario nel pieno delle sue funzioni. Almeno sotto il profilo politico. Enrico Letta, formalmente, è ancora il leader ma si appresta a lasciare lo scettro al vincitore delle primarie di fine febbraio.

Anche questo, secondo alcuni esponenti del partito, avrebbe influito sulle sconfitte in Lombardia e nel Lazio. Sconfitte solo parzialmente attutite dal fatto che il Pd si è comunque confermato prima forza di opposizione. Possibile quindi che una lunga fase di transizione possa aver inciso sul risultato finale del voto di domenica? Dalla storia arrivano risposte ambivalenti: da un lato è dimostrato che senza una chiara linea politica i partiti perdono consensi. Ma è altrettanto vero che la transizione del Pd, paragonata ad altri casi analoghi, non appare la più lunga nella storia repubblicana italiana.

I rischi di lunghe transizioni all’interno dei partiti

In un sistema politico dominato dai partiti, la figura di un segretario viene considerata essenziale. Lo dimostra il fatto che, durante la prima repubblica, i congressi dei partiti erano forse più importanti delle stesse elezioni politiche. Lasciare un vuoto di potere nella segreteria, poteva infatti significare la perdita immediata di una linea politica e quindi di consenso. La Democrazia Cristiana ad esempio, ha dato sì vita a molti “governi balneari” destinati a durare pochi mesi, raramente però ha avuto al timone segretari di transizione o delegittimati politicamente.

Il Pci dal canto suo, alla morte di Enrico Berlinguer nel 1984 ha nominato, senza aspettare il congresso, nel giro di due settimane Alessandro Natta quale nuovo segretario. Il Psi, dopo le dimissioni di Craxi nel 1992 a seguito dello scandalo Tangentopoli, ha visto l’alternarsi in due anni di almeno tre segretari. Ed è forse questo il primo caso in cui si evidenzia l’essenzialità di avere una segreteria costantemente funzionante. Con il coinvolgimento dei vertici del partito nelle vicende giudiziarie di quegli anni, non si è avuta più alcuna stabilità al comando. La transizione post Craxi è finita con il far collassare di netto l’intero Psi, dissoltosi poi nel 1994.

Non solo Pd: i vuoti di potere nella seconda repubblica

Nella cosiddetta seconda repubblica il contesto è diverso. Sono nati partiti più personalistici e quindi meno agganciati a logiche congressuali. Il caso di Forza Italia è forse quello più noto ed emblematico. Anche durante le vicende giudiziarie che hanno coinvolto il fondatore Silvio Berlusconi, il leader “percepito” è rimasto sempre l’ex presidente del consiglio.

Con l’applicazione della Legge Severino, la norma cioè sull’incandidabilità di chi ha subito condanne anche in primo grado, Berlusconi è rimasto “de facto” alla guida di Forza Italia. In una fase peraltro di ricostituzione del partito dopo lo scioglimento del Pdl. Tuttavia, anche tra gli “azzurri” è emersa la necessità di una decisa riorganizzazione politica. Con Berlusconi che ha chiamato l’attuale vice presidente del consiglio Antonio Tajani nel ruolo di coordinatore nazionale.

In quei partiti organizzati sul territorio, con le varie segreterie locali e nazionali, l’importanza di una segreteria attiva è emersa con ancora più forza. È accaduto ad esempio alla Lega nel biennio 2012/2013. La fine dell’era del “senatur” Umberto Bossi, storico leader dimessosi il 5 aprile 2012 dopo lo scandalo Belsito, ha lasciato il Carroccio senza una nuova chiara guida per diversi mesi. E questo si è tradotto in un calo di consensi, accentuato ovviamente anche dallo scandalo giudiziario, alle amministrative del 2012. Il partito è stato guidato da un triumvirato fino al congresso del luglio di quell’anno, nel quale Roberto Maroni è stato eletto segretario.

La sua elezione non ha però sancito la fine della transizione. Il motivo sono le incessanti richieste della base di attuare una “pulizia generale” all’interno del partito. In molte riunioni leghiste, i simpatizzanti del Carroccio in quel periodo più volte si sono presentati esibendo in mano le ramazze. Quasi a simboleggiare per l’appunto la priorità da dare all’espulsione di chi è stato raggiunto dagli scandali giudiziari.

Maroni non è stato percepito probabilmente quale leader in grado di attuare realmente un nuovo corso. E poco dopo la sua designazione a segretario, ha annunciato l’intenzione di correre come presidente della Regione Lombardia. In tal modo, ha fatto intuire la provvisorietà della sua carica e la continuazione di una lunga transizione.

La Lega ha pagato questa fase con una caduta fino al 4% dei consensi nelle politiche del 2013, uno dei risultati meno performanti del Carroccio. Solo dopo l’elezione di Matteo Salvini alla segretaria, avvenuta nel dicembre di quell’anno, il partito ha trovato una nuova stabilità.

Una transizione lunga e difficile l’ha vissuta recentemente il Movimento Cinque Stelle. Anche se il caso dei pentastellati è diverso. Il fondatore Beppe Grillo infatti, non ha mai assunto alcun incarico formale. Ma è più un leader de facto della formazione. La figura del “capo politico” è nata dopo l’ingresso del M5S in parlamento. Le tensioni attorno a questo ruolo hanno destabilizzato e non poco l’intero Movimento.

Tanto che dopo le dimissioni di Luigi Di Maio nel gennaio 2020, si è aperta una lunga fase transitoria durata più di un anno. Molto di più quindi dei cinque mesi attuali del Pd. Vito Crimi, chiamato a prendere ad interim l’incarico di capo politico, ha lasciato in realtà solo il 6 agosto 2021. Nel giorno cioè della designazione di Giuseppe Conte come primo presidente del M5S. In questo frangente il partito ha perso molto del suo consenso, tanto che il 15% rimediato nelle ultime politiche (a fronte del 33% del 2018) è stato considerato quasi un vero successo.

Gli scenari in vista delle primarie del Pd

La storia, passata e recente, ha quindi contribuito nel Pd ad alimentare i malumori per la scelta di fissare le primarie a fine febbraio. In molti tra i dem sono convinti che una lunga transizione non è digeribile da un partito che aspira ad essere forza di governo. Non tutti però sono dello stesso avviso. “Meglio perdere senza un leader legittimato – ha dichiarato una fonte interna al Pd a True-News – piuttosto che depotenziare da subito il nuovo segretario”. Ad ogni modo, la transizione del Pd è destinata ad avere una vita meno lunga di tante altre analoghe situazioni vissute nella storia repubblicana. A fine marzo, con le elezioni primarie, il partito avrà un nuovo leader. Una nuova guida chiamata alla testa di un partito in crisi già da prima dell’inizio della transizione.