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L’avvento dei nuovi radical chic di destra: intervista a Marco Tarchi

L'avvento dei nuovi radical chic di destra: intervista a Marco Tarchi

Perché questo articolo potrebbe interessarti? Un’intervista al politologo Marco Tarchi sul significato del termine “radical chic” e sull’identikit dei nuovi radical chic di destra. 

Il termine radical chic è ormai entrato stabilmente a far parte del linguaggio politico e giornalistico. Negli ultimi anni molti leader populisti l’hanno utilizzato per attaccare i loro rivali, spesso esponenti di partiti di centro-sinistra o sinistra liberale. Sta prendendo forma, oggi, una nuova versione del radical chic, identificabile nella figura del “radical chic di destra”? Ne abbiamo parlato con il politologo Marco Tarchi.

Radical chic: questa parola ha ancora lo stesso significato di qualche anno fa?

Sì e no. Come molte formule lessicali, anche questa ha subìto l’usura del tempo. All’origine era un conio italiano dell’espressione francese gauche caviar (sinistra caviale), con cui si voleva mettere alla berlina il cliché di certi intellettuali dei “quartieri alti” che professavano idee estremiste e pretendevano di dare lezioni di rivoluzione mentre se ne stavano in poltrona a godersi i privilegi di cui godevano nelle università, nelle case editrici, negli ambienti giornalistici e radiotelevisivi o in quello cinematografico. Oggi non è che quella fauna si sia estinta, ma, come i camaleonti, almeno in parte ha cambiato colore.

Cosa è successo professor Tarchi?

I sogni e gli accenti rivoluzionari sono stati dismessi ed è entrato di moda il politicamente corretto di sapore buonista, intollerante verso chiunque dissenta dai suoi dogmi – e in questo ancora radicale – ma impastato di buoni sentimenti, pacifista ed ecologista, nemico delle frontiere e amico degli immigrati (finché con qualcuno di costoro non ha qualche incidente personale), sostenitore di tutte le cause Lgbtq+ e non indenne da simpatie verso la cancel culture. Quella che non è cambiato affatto è l’ambientazione di questi soggetti, che frequentano sempre i “salotti buoni” e occupano posizioni di spicco.

Al netto dei radical chic “di sinistra”, in seguito al consolidamento elettorale di partiti come Lega e Fratelli d’Italia, secondo lei nel mondo politico-intellettuale-culturale hanno preso piede anche radical chic “di destra”?

Per adesso, solo marginalmente, perché il peso politico delle destre di varia gradazione non basta a colmare il gap con gli avversari nell’ambito culturale, e non bastano le nomine ai vertici di qualche istituzione per combattere sul serio un’egemonia consolidata da ben più di mezzo secolo. Così, chi vuole entrare nel circuito degli intellettuali da salotto televisivo deve chiedere il permesso e sperare nell’altrui benevolenza, disegnandosi un personaggio da recitare nei vari talk show e alternando in maniera accorta moderazione e provocazione. Non escludo, però, che un po’ alla volta anche questa categoria possa ingrossarsi.

Come si riconosce il radical chic di destra? O meglio: qual è il suo identikit politico, le idee alle quali crede e via dicendo. Per intenderci, abbiamo un’idea generalizzata molto chiara del radical chic di sinistra: quello dell’elettore della ztl. Esiste uno stereotipo utilizzabile anche per il radical chic di destra?

Per la connaturata tendenza delle destre all’individualismo, è meno facile tracciare un identikit che valga per tutti i soggetti almeno potenzialmente inquadrabili in questa categoria. Lo snobismo e il gusto di sentenziare su tutto e tutti, la passione per gli ambienti “che contano” e il desiderio di far parte del circolo degli happy few hanno sempre albergato fra i conservatori come fra i progressisti, ma la sproporzione tra i due campi è ancora oggi netta. Non basta la frequentazione del Billionaire per far acquisire capacità di influenza intellettuale o sui costumi diffusi. Quanto alle idee, di sicuro il radical chic di destra le deve avere flessibili e adattabili al contesto. Le ideologie, in questo campo, sono escluse a priori.

Politici, intellettuali, giornalisti: chi sono i nuovi radical chic di destra che influenzano il dibattito pubblico (magari partendo da posizioni ideologiche tradizionali riadattate ad esigenze più moderne)?

Per le ragioni che ho citato, un catalogo è difficile da stabilire, anche perché di solito chi cerca di ritagliarsi un ruolo di maître à penser mediatico da destra si preoccupa prima di tutto di apparire nelle vesti di avvocato del popolo (Conte qui non c’entra), di farsi paladino della “gente comune” che vuole parlare come magna: insomma, di non confondersi con “quelli che stanno in alto”. Un profilo del genere calza, per dire, a Nicola Porro, come a Vittorio Sgarbi, che pure è capace di darne interpretazioni sfaccettate. C’è anche chi sa ritagliarsi un posto nello star system puntando proprio sull’esternazione di un anticonformismo persino paradossale.

A chi pensa, professor Tarchi?

Penso a persone peraltro di valore come Alessandro Giuli o Pietrangelo Buttafuoco. Un tempo apparteneva a questa specifica specie Giordano Bruno Guerri, che con l’andar del tempo è diventato quasi una copia conforme del tipo ideale classico del radical chic, pur trapiantato sul versante simmetrico a quello originario. Un altro esemplare del filone originario ora “adattato alla destra” è certamente Daniele Capezzone.

Quali altri esempi si possono trovare?

Qualcun altro lo si potrebbe scovare nella redazione del “Foglio”, sebbene uno come Cerasa sia molto più vicino allo stereotipo originario collocato a sinistra. C’è il piccolo (per ora) nucleo dei professori che vorrebbero “civilizzare” una destra ancora troppo ruspante per i loro gusti e indirizzarla verso le sponde di un liberalismo fondamentalista intenzionato ad impugnare su tutti i fronti la bandiera dei “valori occidentali”: Ernesto Galli della Loggia, che pure qualche volta stona dal coro, Angelo Panebianco, Alessandro Campi. Ci sono poi, è sin troppo scontato, i campioni del genere, quasi caricaturali, come Flavio Briatore o Daniela Santanchè e tutti i loro cloni. Ma, ripeto, si tratta di un agglomerato che, al momento, è difficile assimilare a uno stereotipo – e ancor meno a un archetipo, per cui un’enumerazione come quella che ho fatto può dare l’idea dell’arca di Noè.

Nell’editoriale apparso nell’ultimo numero della sua rivista Diorama (Senza via d’uscita) lei ha evidenziato i rischi connessi all’incessante martellamento mediatico portato avanti da determinate realtà editoriali, culturali e politiche. In politica estera queste posizioni coincidono spesso con un’esaltazione avalutativa e poco obiettiva dell’Occidente (una sorta di ‘occidentalismo d’assalto’). Anche qui siamo di fronte a sottogeneri del “radical chic di destra” oppure qui sconfiniamo in altro, ovvero in una tendenza più trasversale, capace di trascendere i concetti di destra e sinistra?

Qui siamo in pieno politically correct, anzi alla radice di questo fenomeno, da altri descritto come pensiero unico: l’imposizione di un modo di pensare obbligatorio per essere ammessi alla sfera del dibattito pubblico. Un decalogo da sottoscrivere per evitare di essere assoggettati a una sistematica esclusione dai circuiti massmediali o per non farsi assegnare la patente di nemico dell’umanità. Da questo punto di vista, la convergenza di gran parte delle destre e delle sinistre attuali intorno a questo nuovo credo ha creato un clima di intolleranza verso il dissenso molto peggiore di quello dei tempi dei più aspri confronti ideologici. 

Quali?

La demonizzazione di tutto ciò che esula dai canoni del liberalismo occidentalista è ormai una prassi che funziona per automatismo in tv, in radio, nella carta stampata. Stiamo approdando ad una forma di totalitarismo soft, che per omologare alle scelte di chi comanda non ha bisogno di usare la violenza repressiva: gli basta far parlare con voci apparentemente distinte ma di fatto convergenti verso gli stessi obiettivi gli strumenti comunicativi di cui dispone. È un processo tanto sistematico quanto invisibile agli occhi dei non addetti ai lavori, basato sulla censura delle idee e delle opinioni alternative da tutti i luoghi che contano – o anche dalla squalifica, per via di deformazione e diffamazione, di chi se ne fa portavoce. È ciò che è accaduto, ad esempio, ad Alain de Benoist, il pensatore francese ottantenne che meglio di ogni altro incarna oggi una critica radicale dell’odierno “spirito del tempo”.