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Intervista al professore Alessandro Santin della Yale University

Intervista al professore Alessandro Santin della Yale University

A tu per tu con Alessandro Santin, professore e scienziato italiano presso la prestigiosa Yale University, negli USA, dove dirige il centro di ricerca.

Prof. Santin, dopo circa un anno dall’esplosione del Covid-19 nel mondo, a che punto siamo con l’evoluzione dell’epidemia?

Siamo purtroppo ancora nel mezzo della seconda ondata. I dati odierni della John Hopkins University di Baltimora riportano oltre 107 milioni di casi confermati di Covid nel mondo con 2,36 milioni di morti. Un numero enorme che continua a crescere di giorno in giorno. L’organizzazione mondiale della Sanità (OMS), sulla base del fatto che la maggioranza delle infezioni da Covid sono forme  lievi e/o asintomatiche, ritiene che i numeri di persone contagiate siano probabilmente dieci volte superiori a quelli riportati nelle attuali statistiche. Il Covid è un virus a RNA ed è quindi per natura geneticamente instabile, e sta evolvendo rapidamente negli esseri umani generando varianti non necessariamente più letali ma sicuramente più contagiose che stanno prendendo il sopravvento sulla forme virali iniziali in diverse parti del pianeta.
 
Sono arrivati finalmente i vaccini. Pfizer, Moderna, AstraZeneca, Sputnik, J&J. Cosa ne pensa? Sono affidabili e soprattutto sicuri?
 
Al momento negli USA abbiamo a disposizione due vaccini approvati dalla FDA basati su RNA codificante per l’antigene virale Spike (Pfizer e Moderna). Entrambi i vaccini sono molto efficaci dato che dopo le due iniezioni a distanza di tre o quattro settimane, rispettivamente, conferiscono protezione nei confronti dell’infezione sintomatica in circa il 95% dei casi.

Per quanto riguarda la sicurezza di questi vaccini il discorso è diverso a seconda delle categorie di individui in cui viene iniettato. Cerco di spiegarmi meglio. Nei soggetti mai esposti al virus (naive) i vaccini sono estremamente sicuri dato che il rischio di reazioni avverse negli studi pubblicati nei soggetti vaccinati naive è simile a quello del gruppo iniettato con placebo. L’unico rischio in questo gruppo è una potenziale reazione a sostanze presenti nel vaccino (glicole polietilenico) che può scatenare allergie improvvise in un ristretto gruppo di individui che avevano già la tendenza a sviluppare reazioni anomale (allergia/anafilassi) a farmaci, specifici alimenti o a punture di insetti, come per esempio vespe o api.

Il secondo gruppo è quello dei soggetti che invece sono stati precedentemente esposti al virus e che hanno superato l’infezione senza strascichi di sintomi importanti e spesso con una seroconversione (hanno prodotto alti livelli di anticorpi dopo l’infezione naturale da Covid). La vaccinazione anche in questo gruppo sembra essere sicura anche se questi soggetti riportano più effetti collaterali rispetto ai soggetti mai esposti (naive) al Covid, dato che l’iniezione del vaccino funge da richiamo per il sistema immunitario dopo lo sviluppo dell’immunità naturale. È interessante il fatto che una sola iniezione è sufficiente in questi soggetti a riattivare la produzione di una grande quantità di anticorpi neutralizzanti contro il Covid (10-20 volte più alta rispetto a quella dei soggetti naive vaccinati con due iniezioni). Questi soggetti sono quindi potenzialmente tra i migliori donatori di plasma iperimmune se dovessero decidere di farlo.

L’ultimo gruppo dove ancora non è chiaro se la vaccinazione sia efficace e tanto meno sicura è quello dei Long Haulers o Long Covid. Questi sono per la maggioranza soggetti che hanno superato la fase acuta dell’infezione in forma lieve o moderata (in poche parole non hanno mai avuto bisogno di ossigeno o di essere ricoverati in ospedale) ma non sono mai guariti in quanto hanno continuato ad avere sintomi come mancanza di respiro, dolori al petto, mal di testa, perdita di memoria, per mesi.  Sospettiamo che in questo soggetti esista persistenza del virus e come ho ricordato in una recente intervista: la maggioranza dei Long Covid non riesce a produrre anticorpi contro il virus. Io personalmente suggerisco molta cautela e non la consiglio nei soggetti ancora sintomatici dato che la vaccinazione può scatenare un ulteriore aggravamento dei sintomi debilitanti che contraddistinguono questa sindrome post-Covid.
 
Cosa ne pensa degli anticorpi monoclonali?

Al momento negli USA nelle fasi precoci dell’infezione (nei primi giorni dopo l’inizio dei sintomi) abbiamo l’autorizzazione da parte della FDA ad utilizzare gli anticorpi monoclonali prodotti dalle case farmaceutiche Regeneron e Lilly, rispettivamente. Entrambi sono stati dimostrati essere molto efficaci nel prevenire l’evoluzione verso la forma severa dell’infezione da Covid in pazienti ad alto rischio (ad esempio cardiopatici, diabetici, persone obese o su di età…). Il principio attivo di queste terapie è lo stesso del plasma iperimmune ottenuto da pazienti Covid convalescenti ed è basato sull’infusione di quantità note di anticorpi altamente selezionati e fortemente neutralizzanti contro il Covid. È importante sottolineare come gli studi randomizzati in doppio cieco (livello 1 di evidenza scientifica in medicina dove né il paziente né il medico sanno chi riceve il trattamento anticorpale verso il placebo) utilizzati per validare l’attività di questi anticorpi prodotti in laboratorio abbiano ulteriormente indirettamente confermato come il plasma iperimmune ottenuto dai donatori sia un’arma efficace nelle fasi iniziali dell’infezione Covid per prevenire l’aggravamento della malattia in soggetti ad alto rischio. 

Nello specifico, il cocktail di anticorpi prodotti in laboratorio dalla Regeneron (Casirivimab and imdevimab) e l’anticorpo monoclonale prodotto dalla Lilly (bamlanivimab) sono infatti risultati altamente efficaci prevenendo l’ospedalizzazione della maggioranza dei pazienti trattati. Un dato molto importante in questi studi è la scoperta che il massimo beneficio degli anticorpi sintetici si è visto nel gruppo di pazienti Covid ancora privi di anticorpi naturali al momento dell’infusione (circa il 40% dei pazienti con malattia Covid con sintomatologia lieve/moderata). Gli svantaggi sono che i costi della terapia con anticorpi prodotti in laboratorio sono elevati e significativamente superiori rispetto a quelli del plasma con alto titolo di anticorpi neutralizzanti. In aggiunta questi anticorpi sintetici, seppure altamente efficaci nel gruppo di pazienti descritti sopra, sono ancora prodotti in quantità molto limitate e non sono quindi ancora disponibili per la maggioranza di coloro che ne hanno attualmente bisogno.
 
E la cura con il plasma iperimmune che fine ha fatto?

Esiste molta confusione sull’efficacia del plasma iperimmune e questa confusione è dovuta alla pubblicazione di studi prospettici e randomizzati con risultati contrastanti tra di loro circa la sua efficacia.
In generale il problema di base è che molti di questi studi con il plasma iperimmune hanno arruolato pazienti in fasi diverse (più o meno avanzate) della malattia e ancor più importante, hanno spesso infuso plasma ottenuto da pazienti convalescenti senza averne prima testato la presenza di anticorpi neutralizzanti. Nello specifico, alcuni studi randomizzati con il plasma iperimmune sono stati interrotti precocemente prima di arrivare ad arruolare il numero prestabilito di pazienti, in quanto in alcune parti del mondo l’epidemia si era esaurita e pazienti da arruolare per completare l’arruolamento non erano più disponibili. Questo è quello che è accaduto allo studio cinese pubblicato su JAMA, dove l’attività del plasma iperimmune non ha potuto essere completamente dimostrata molto probabilmente per questa ragione, dato che nel gruppo più numeroso di pazienti con infezione da Covid severa (con difficoltà respiratorie e con necessità di ossigeno per sopravvivere) ma non ancora in condizioni critiche (gruppo di pazienti intubati), anche con un numero più basso di pazienti arruolati, lo studio è riuscito a dimostrare una differenza significativa a favore del gruppo plasma verso quello placebo. Nello studio randomizzato PLACID sul plasma iperimmune completato in India con risultati negativi invece  il difetto principale è stato quello di utilizzare plasma convalescente ottenuto da donatori con livelli estremamente bassi di anticorpi neutralizzanti contro il Covid. Non avendo testato il titolo anticorpale prima dell’infusione nei pazienti (una procedura considerata essenziale per garantire l’infusione di plasma clinicamente efficace sia alla Yale University negli USA che al San Matteo di Pavia in Italia), i ricercatori dello studio PLACID si sono resi conto solo a posteriori che una grande quantità di pazienti Covid aveva ricevuto sacche di plasma contenenti quantità insufficienti di anticorpi neutralizzanti. Il livello di anticorpi contro il virus è estremamente importante per l’efficacia di questa terapia dato che, come ho accennato sopra per gli anticorpi monoclonali, sono loro il principio attivo alla base dell’attività clinica del plasma iperimmune. Questo è stato chiaramente dimostrato nello studio sul plasma iperimmune completato in America sul migliaia di pazienti in cui il mio istituto (Yale University) ha attivamente partecipato nel reclutamento e i cui dati sono stati recentemente pubblicati sul NEJM. Infatti negli oltre 3000 pazienti Covid che hanno ricevuto sacche di plasma con titolo di neutralizzazione anticorpale noto, quelli con alta concentrazione di anticorpi neutralizzanti hanno avuto un beneficio clinico significativamente superiore rispetto a quelli che hanno ricevuto sacche di plasma con un titolo di anticorpi neutralizzanti più basso.

Devo infine enfatizzare che il plasma iperimmune è molto più efficace quando utilizzato nella fasi precoci dell’infezione (fino a 3-4 giorni dalla comparsa dei sintomi), quando cioè il Covid si sta ancora rapidamente moltiplicando nel corpo dei pazienti ma prima che abbia attivato la tempesta di citochine che causa spesso danni irreversibili agli organi vitali (polmone, cuore, reni, fegato e cervello). Questo punto è importante per spiegare come mai lo studio randomizzato Argentino sul plasma (negativo) che ha arruolato pazienti con polmoniti in fase avanzata ed era sbilanciato per numero di fumatori cronici nel gruppo trattato con il plasma iperimmune non è riuscito a dimostrare un vantaggio di sopravvivenza verso il gruppo placebo. In questa fase avanzata dell’infezione da Covid la replicazione virale è adesso limitata e quindi il plasma non può aiutare più di tanto mentre i danni al nostro corpo sono ora principalmente causati dall’attivazione esagerata del sistema immunitario del paziente (fase iperinfiammatoria della malattia Covid definita “cytokine storm”). In questa fase della malattia l’utilizzo di farmaci antinfiammatori come i cortisonici, la famotidina o l’ivermectina (vedi sotto) risulta infatti essere più efficace.
 
In queste settimane in Europa è cresciuta la paura per le varianti che potrebbero di nuovo metterci in ginocchio. Che opinione si è fatto? Saranno efficaci i vaccini?

Esistono diverse varianti di Covid che stiamo seguendo, che includono la variante  B.1.1.7 and B.1.351, inizialmente identificate in Gran Bretagna e Sudafrica. I vaccini approvati in diverse parti del mondo dimostrano percentuali di protezione diverse rispetto a queste varianti. Per esempio, il vaccino della Astra Zeneca è poco efficace contro la variante sudafricana e in accordo a questi recenti dati le autorità sudafricane hanno interrotto la campagna di vaccinazione con questo vaccino. Esiste invece evidenza che il vaccino Moderna a Pfizer rimangano attivi su entrambe queste varianti.
 
Nel vostro Istituto curate anche i cosiddetti “Long Haulers” ovvero i soggetti che si sono negativizzati, ma continuano ad avere disturbi anche importanti…

I Long Haulers (Long Covid) sono un problema enorme (già milioni nel mondo) e in continua espansione. Le stime più conservative riportano che fino al 10% dei soggetti che si sono infettati e hanno sviluppato forme lievi/moderate di infezione non riesce a guarire per lo meno fino a 10-12 mesi (massimo follow up dei miei pazienti negli USA) e continua a presentare sintomi debilitanti come costante mancanza di respiro, mal di testa, dolori al petto, problemi intestinali, perdità della memoria, ecc., per menzionarne solo alcuni. Il vero problema è che a differenza dei pazienti ricoverati in ospedale dove protocolli terapeutici basati su remdesivir e cortisonici sono operativi,  linee guida standardizzate dall’NIH/CDC/FDA per il trattamento dei Long Haulers attualmente non esistono. La terapia è quindi individuale e si basa sull’uso di farmaci che riducono i sintomi più debilitanti come proposto nei protocolli dalla Frontline COVID-19 Critical Care Alliance.

Molti dei Long Haulers continuano a non riuscire a respirare bene e questo limita enormemente la loro capacità di tornare ad una vita normale. Molti però si avvantaggiano di trattamenti con una serie di farmaci venduti in America senza necessità di ricetta medica (vedi anti-istaminici H1/H2 come Pepcid/famotidina e Zyrtec/cetirizina per citartene solo alcuni che come l’aspirina sono super economici e potenzialmente sicuri, in aggiunta a supplementi di vitamina D e C). Nelle ultime settimane sono usciti molti lavori in letteratura basati sull’uso dell’ivermectina, un farmaco approvato dalla FDA come antiparassitario da oltre 30 anni ma che è anche dotato di una duplice azione antivirale e anti-infiammatoria contro il Covid. Il Dr. Pierre Kory ha presentato i risultati di oltre trenta studi clinici sull’ivermectina poche settimane fa di fronte al senato americano. Questa presentazione è stata ben ricevuta negli USA e ha praticamente obbligato l’NIH/NCI/FDA a permettere l’utilizzo dell’ivermectina previa ricetta medica del medico curante come una nuova terapia contro il Covid sia per la profilassi (prevenzione) che la terapia delle forme lieve/moderate e severe. Questa raccomandazione è simile a quella fatta dall’NIH/NCI/FDA per gli anticorpi monoclonali contro il Covid e permette quindi l’uso dell’ivermectina anche nei pazienti Long Covid. Capiremo nei prossimi mesi se questo farmaco (l’ivermectina) già definito da molti medici come il Dr Kory e il Dr Marik (due medici molto stimati negli USA per la loro competenza in materia) la “wonder drug” contro il Covid sarà all’altezza delle aspettative.