Home Future Perché le aziende, non gli Stati, fanno la guerra alla Russia

Perché le aziende, non gli Stati, fanno la guerra alla Russia

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Elon Musk sfida Vladimir Putin a un duello di arti marziali. “Posta in gioco: l’Ucraina”. Il ceo di Tesla si era già dichiarato “saldamente a fianco” del popolo ucraino, ma soprattutto a fine febbraio aveva deciso di attivare il suo servizio Internet satellitare a banda larga Starlink a favore di Kiev, in risposta ai crescenti problemi di comunicazione registrati dopo l’invasione russa.

Guerra in Russia, il fuggi fuggi delle aziende

Una superpotenza economica decide così di bypassare le superpotenze politiche ed entra in conflitto con il Cremlino. Non è l’unica: è lunga la lista delle corporation occidentali che hanno deciso di lasciare la Russia, sospendendo le attività fino a data da destinarsi. Nel mondo del tech Netflix, Facebook e TikTok non sono più attive, mentre Apple ha interrotto la vendita dei suoi prodotti. Disney e Warner Bros hanno bloccato le uscite di nuovi film. Harley Davidson non consegna più le motociclette e lo stesso vale per le Ferrari tanto amate a Mosca. McDonald’s, Ikea e Coca Cola hanno detto “stop”. Nella moda la stessa decisione è stata presa dalla spagnola Inditex (Bershka, Pull&Bear, Zara, Stradivarius, Oysho, Massimo Dutti, Zara Home e Uterque), dalla svedese Hennes and Mauritz (H&M) e da altri brand fashion, tra cui Nike, Adidas, Mango, Burberry ed Hermes. Perfino Boeing ha deciso di sospendere il supporto tecnico e di manutenzione per le compagnie aeree russe.

Insomma, se in passato le imprese “subivano” le guerre portate avanti dai governi, oggi sono loro stesse a decidere di schierarsi, anche a costo di notevoli perdite economiche, derivanti non solo dalle mancate vendite, ma pure dai piani di protezione per i dipendenti russi, che molte hanno annunciato. 

La guerra, ulteriore evoluzione del brand activism

Che cosa sta succedendo? “È l’evoluzione naturale di un cambiamento che arriva da lontano”, commenta Francesco Oggiano, digital journalist, volto e socio del progetto di informazione “Will Italia”, autore del libro “Sociability”. “In passato le aziende delegavano le decisioni importanti allo Stato, poi nel Novecento qualcosa è cambiato. Prima si sono fatte avanti le ong, che hanno cominciato ad assumersi un impegno politico-sociale, poi a partire dal secondo dopoguerra le aziende hanno iniziato a devolvere una parte dei profitti in beneficenza, fino ad arrivare al brand activism attuale. Oggi si fanno scelte operative e si modifica il business aziendale per impegnarsi a favore di cause come ambientalismo, diritti LGBT, diritti sociali, empowerment”.

Il 2022 sta segnando un’ulteriore svolta: la necessità di prendere posizione di fronte alla guerra. “Questo è quello che si aspettano le nuove generazioni di consumatori. I brand non possono più tacere sui social: sapendolo, giocando d’anticipo”.

Secondo l’edizione 2021 dell’Edelman Trust Barometer, lo studio che viene pubblicato ogni anno dalla società internazionale di pubbliche relazioni e comunicazione, si aggrava nel mondo la crisi di fiducia verso le istituzioni, i media e le ong, mentre cresce la fiducia riposta nelle imprese, grazie alla maggiore attenzione con cui sono stati trattati temi come la sostenibilità, la collettività e l’etica.

Aziende schierate sulla guerra in Russia: quali conseguenze?

Schierarsi sulla guerra in Russia comporta delle conseguenze per le imprese, ma non solo. “Per quanto riguarda le perdite economiche, quelle ci sono nell’immediato. Ma si tratta in realtà di un lavoro di posizionamento agli occhi dei consumatori, che porterà frutti nel lungo periodo, come la scelta di Nike di avere come testimonial Colin Kaepernick, atleta che aveva scatenato l’ira del presidente Trump inginocchiandosi per l’inno nazionale”. 

C’è poi il rischio che queste scelte aziendali, che sono sostanzialmente una forma privata di sanzioni, possano interferire con le trattative diplomatiche che vengono portate avanti dai governi degli Stati: che cosa succederebbe se Putin e l’Occidente trovassero un accordo, ma le corporation non fossero risposte a cambiare strategia?

Infine, il pericolo della “virtue signalling, ovvero un atteggiamento di artefatta, spesso esasperata, ostentazione di aderenza a valori morali che riscuotono consenso nella società: “Si può eccedere nell’attivismo, ottenendo una visibilità controproducente: pensiamo all’Università di Milano Bicocca, che è scivolata su corso tenuto dallo scrittore Paolo Nori su Dostoevskij, oppure alla piattaforma americana online Coursera, 140 milioni di utenti, che ha sospeso i corsi di lingua e letteratura russa”.

Che cosa comporta invece la decisione di non lasciare la Russia per le aziende che  hanno scelto questa linea? “Chi resta rischia di più, perché si espone alle critiche di essere filorussi, pur non essendolo, all’interno di quella corsa all’identificazione che ormai domina sui social: o sei “contro” o sei “pro”. In ogni situazione ormai c’è la tendenza alla semplificazione e all’eccessiva polarizzazione”.