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Neymar, la geopolitica del turbocapitalismo applicata al calcio

Neymar all'Al Hilal

A 31 anni, e con quindici di carriera professionistica alle spalle, Neymar da Silva Santos Junior ha appena firmato per il suo quarto club. Non è uno che cambia squadra ogni uno o due anni, non ha procuratori che giocano sui suoi mal di pancia per rimpinguare il proprio conto. Non ne ha bisogno: il brasiliano è infatti da poco passato attraverso il suo terzo trasferimento in carriera, e per la terza volta su tre si è trattato di un’operazione opulenta, ricchissima per tutte le parti coinvolte (oltre che, in due occasioni su tre, anche oggetto di dubbi rispetto al carattere di liceità finanziaria e fiscale). E, soprattutto, fortemente indicativa rispetto agli equilibri di potere calcistico-economici nei quali il trasferimento è maturato, quasi che la direzione fosse sempre verso il principale centro di potere del momento.

Neymar, va’ dove ti porta il denaro

In qualche modo, insomma, le tappe della carriera di Neymar possono essere considerate la cartina di tornasole della geopolitica del turbocapitalismo calcistico. Il che, considerando che stiamo indiscutibilmente parlando comunque di uno dei più talentuosi calciatori dell’ultimo ventennio (per qualcuno sopravvalutato, ma non è questo il punto), è ancora più significativo dal momento che implica, di fatto, l’esistenza di logiche che vanno oltre le questioni di campo.

Queste ultime potevano ancora essere rintracciate nel 2013, quando il brasiliano firmò per il Barcellona. Era, quella, probabilmente la squadra più forte del mondo: reduce dall’era Guardiola, aveva in rosa Puyol e Piqué, Xavi e Iniesta, Dani Alves, Busquets e Fabregas, ovviamente Messi. Dodici mesi più tardi sarebbe arrivato anche Suarez. Ai tempi (2012) la Liga fatturava 1,76 miliardi – dietro alla Premier – ed era prima nel ranking Uefa, ma appunto vi giocavano Messi e Cristiano Ronaldo, e del resto secondo Forbes, nel 2013, i club più ricchi del mondo erano Real Madrid, Manchester United e appunto Barcellona, quest’ultimo ancora in ascesa e, comunque, estremamente influente. 57 i milioni il costo del cartellino, 190 di clausola rescissoria, 29 lordi annui (14 netti) l’ingaggio del giocatore.

In realtà la procura di Madrid avrebbe accusato il Barcellona, sei mesi più tardi, di avere nascosto la reale entità dell’operazione e in effetti il club – che sarebbe poi stato assolto dall’accusa di pagamenti in nero, ma la vicenda costò le dimissioni del presidente Rosell – ammise poi un costo di oltre 86 milioni, circa 40 dei quali alla famiglia del ragazzo.

Go (Middle) East

Nell’estate 2017 la clausola di Neymar era salita a 222 milioni. La pagò il Paris Saint-Germain, firmando il colpo più costoso della storia. Rectius: la pagò di fatto Qatar Sports Investments nell’ambito di una strategia nota, quella che si è di fatto conclusa dopo il Mondiale qatariota, dando l’abbrivio a un’accelerazione clamorosa per quanto riguarda gli affari dei club-Stato, e in particolare di un Psg che, sino ad allora, non era andato oltre il trentenne Ibrahimovic. Per il giocatore 185 milioni (salvo bonus) sino al 2022, quindi altri 50 nel 2023, con i diritti di immagine però sfruttati dal club e da Qsi.

Ai tempi, Akram Belkaïd, giornalista esperto di geopolitica mediorientale, scrisse sull’edizione maghrebina dell’Huffington Post che l’acquisto da parte del club di Al-Khelaifi rappresentasse la frustrazione di chi “sa che non potrà mai comprarsi Exxon, Total o Boeing. Non è una questione di mezzi, ma di possibilità politiche. Così, deve accontentarsi del resto”. 

Sia come sia, nonostante la ridicolizzazione del fair play finanziario che venne aggirato con quell’operazione, si trattò di un trasferimento ad altra caratterizzazione geopolitica, esattamente come il recente passaggio dello stesso Neymar al club saudita dell’Al Hilal. Più o meno – le cifre ufficiali non sono state rese note – il Paris Saint-Germain ha ottenuto circa 90 milioni. Ma sono le cifre dell’ingaggio che il fondo sovrano saudita Pif pagherà a Neymar: si tratta di 80 milioni annui che però, aggiungendo bonus alla firma e tutta un’altra serie di premi (ed escludendo i benefit), portano l’accordo biennale a superare i 300 milioni di euro. Senza falsi moralismi: sono scelte del tutto legittime, anche perché Neymar – come pure Cristiano Ronaldo, Benzema e compagnia – sa bene di fare non solo i suoi interessi, ma quelli di uno Stato. Lo ha già fatto con il Qatar.

Una dimostrazione di potenza

Per l’immagine della Saudi Pro League si tratta dell’ennesima dimostrazione di potenza, di un’attrattività economica unita a una progettualità i cui confini non sono chiari, ma la cui direzione – essere protagonista delle dinamiche finanziarie, e dunque di governo, dello sport più praticato, amato e seguito del mondo – si interseca con la strategia politica di un Paese che ha sufficienti risorse per non ritenersi affatto periferico in diversi settori. Se sta già scalando quello del leisure di lusso, un motivo c’è. E i testimonial, anche grazie al calcio, non mancano.