Home Politics “Servo degli schiavisti”, la campagna contro l’avvocato Mazzali è stupida e disgustosa

“Servo degli schiavisti”, la campagna contro l’avvocato Mazzali è stupida e disgustosa

“Servo degli schiavisti”, la campagna contro l’avvocato Mazzali è stupida e disgustosa

di Francesco Floris

A lui non piace essere chiamato così. Ma sul campo (in tribunale) si è guadagnato il titolo di “avvocato dei centri sociali”. Ne ha difesi parecchi nella sua vita di militanti, rossi, anarchici, antagonisti. Dal G8 di Genova, al Leoncavallo di Milano, in un caso anche i No Tav. Mirko Mazzali è uno storico avvocato milanese di sinistra. Ha fatto politica, ultimo mandato in consiglio comunale 2011-2016 con Sel giocando il ruolo di rimpiscatole sui conti di Expo assieme al radicale Marco Cappato. Beppe Sala, una volta eletto, gli ha conferito l’incarico di “delegato alle periferie” (che all’avvocato è valso varie critiche da chi si oppone a Beppe Sala da sinistra). Oggi Mazzali, fra i suoi clienti, ne ha alcuni particolari: difende Giuseppe Moltini, titolare della società Frc, finita la scorsa primavera nel mirino degli inquirenti milanesi per caporalato sui rider che lavorano con il servizio di Uber Eats. Dalla carte del pm Paolo Storari e del commissariamento sancito dal giudice Fabio Roia, emerge un quadro. Che a prescindere da reati e responsabilità individuali (da dimostrare in dibattimento) mostra schiavismo, buste paga imbarazzanti, minacce, abusi, contratti scritti a penna su foglietti di carta, scampoli di razzismo nelle parole di manager e funzionari di Uber e dei sub fornitori. Mazzali difende uno di loro. Tanto è bastato ad un gruppo di militanti antagonisti di Torino (non di Milano) per lanciare una campagna di discredito contro l’avvocato. Nei lunghi post sui social hanno scritto che “Ora Mirko Mazzali ha deciso di legare il proprio nome e la propria professionalità a quello degli schiavisti e delle schiaviste di Uber Eats/Frc, la parte più sporca del già inglorioso ambiente dei manager del food delivery, una responsabilità grave che ci teniamo a sottolineare con queste righe”.

Se per queste persone è difficile capire che un avvocato non coincide con il proprio cliente, men che meno ideologicamente, e mentre per fortuna in Italia esiste una tradizione “innocentista” di sinistra che, per esempio, difende ancora oggi i fascisti e i Nar di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro dall’accusa di aver fatto saltare la stazione di Bologna nel 1980, semplicemente perché le carte non li convincono, c’è altro che i torinesi forse non sanno e che gli ha fatto prendere un abbaglio. O fingono di non sapere. Cioè che Mazzali ha accettato l’incarico di difendere il fornitore di manodopera per Uber solo a patto che venisse messo nero su bianco tutto ciò che la committenza chiedeva. Perché farlo? Semplice: già dopo poche ore dai primi avvisi di garanzia era partito il classico teatrino delle tre scimmiette “non vedo, non sento, non parlo”, con Uber che narrava di essere all’oscuro dei comportamenti messi in atto dai principali imputati, i quali avrebbero agito per sé e solo per sé. Non a caso le prime note della piattaforma di delivery, quando è uscita la notizia dell’inchiesta, recitano così: siamo a “disposizione di utenti, ristoranti e corrieri” e agiamo “nel pieno rispetto di tutte le normative locali” condannando “ogni forma di caporalato attraverso i nostri servizi in Italia”.

Pagano sempre i pesci piccoli

Non è un caso isolato. Il reato di intermediazione illecita di manodopera (caporalato), come anche l’articolo che punisce la somministrazione fraudolenta, è una di quelle parti del codice su cui la politica e il legislatore banchettano da anni. Di solito facendo più confusione che altro, non sempre per errore. Modifiche, depenalizzazioni in cambio di sanzioni amministrative (accadde con il governo Renzi e il ministro Poletti per la somministrazione fraudolenta, il che forse spiega perché per Teresa Bellanova l’Arabia Saudita senza cuneo fiscale sia un modello produttivo), poi ripristino con altre modifiche da parte del governo giallo-verde. Ma oltre ai dettagli c’è sempre stata la sostanza: a un certo punto arrivano gli inquirenti, a onor del vero i più coraggiosi – soprattutto nei piccoli territori di provincia dove politica e imprese sono nei fatti la stessa cosa – a contestare le pratiche alle aziende. Lì parte lo scaricabarile. Nei processi diventa quasi impossibile dimostrare una responsabilità delle grosse committenze o della grande distribuzione, quelle che più si avvantaggiano dalle infinite catene di sfruttamento del lavoro. Sia la responsabilità individuale e penale di singoli amministratori, sia quella civile dove si accede ai risarcimenti. Un po’ di casi? In Lombardia un caso-scuola è quello del mega processo partito nel 2016 alle cooperative e al consorzio Expo Jobs, che orchestravano la logistica e la movimentazione merci nell’area cargo di Malpensa, uno dei primi scali merci in Europa. Un mondo gestito dall’ex presidente del Varese Calcio e politico locale della Lega, Antonio Rosati, dove decine di cooperative di lavoro con manodopera straniera e nomi sempre identici fallivano ogni due anni. Sparendo con contributi e tfr dei lavoratori. Si è arrivati a contestare 250 milioni di euro di false fatture e evasione Iva. I 100 lavoratori rappresentati dalla Cub (e difesi da un altro avvocato “rosso” che ha fatto la storia dei movimenti di sinistra a Milano dagli anni Settanta, Gabriele Fuga, di recente autore di un libro sull’anarchico Pinelli dal titolo “Pinelli, la finestra è ancora aperta”) e Sea – le due parti civili – costrette ad accettare compromessi su compromessi per poter stare nel processo. Il dibattimento è stato duro, con imputati che se prima si mandavano mail e si chiamavano al telefono ogni settimana, in aula fingono di non conoscersi storpiando addirittura i cognomi degli ex “colleghi”. Ma i pesci grossi non sono nemmeno stati nominati, seppure qualcuno lo abbia detto o lasciato intendere durante gli interrogatori: perché facevano quello che facevano? Risposta: era l’unico modo per stare sul mercato per le grandi committenze, che comprimevano i costi e volevano far transitare le proprie merci da Malpensa.

Un altro caso? Ceva Logistics, la controllata del Gruppo francese CMA-CGM, leader mondiale nel settore delle spedizioni e della logistica, che ha subito la misura di prevenzione di Amministrazione Giudiziaria per i comportamenti imbarazzanti, a livello etico, economico e penale, tenuti dai fornitori di manodopera nei confronti dei lavoratori. Accadeva dentro la “cittadella” della logistica di Stradella. Misura revocata il 6 maggio 2019, con 3 mesi di anticipo rispetto alla scadenza, perché la società dopo la gestione commissariale si è data una ripulita. Cambiando proprietà e management di Ceva Italia. Ma anche in quel caso non si è arrivati davvero in alto, ai clienti di Ceva (per esempio alcuni dei più grossi editori italiani) che prima fanno il prezzo e poi si avvantaggiano grazie alle pratiche che comprimono il costo del lavoro messi in atto dagli intermediari. Alcuni, secondo cronache e carte, in odore di mafia.

Non serve andare avanti con altri esempi. Su Uber sarebbe successo lo stesso. Con la capofila “olandese” che avrebbe scaricato ogni responsabilità su due piccole società di rider e biciclette per quanto gestite con pratiche criminali. Non è accaduto per una volta. I motivi? Perché la procura di Milano ha deciso di andare fino in fondo. Perché il fascicolo è finito a mano a Fabio Roia, il presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Milano, con una storia – anche recente – che gli fa onore (i casi Nolostand, Ceva e ora Uber). E grazie all’avvocato Mirko Mazzali. Che appena preso l’incarico inizia a far parlare il suo assistito. Questa la sintesi delle prime memorie difensive che contengono contratti di fornitura allegati e 107 pagine di chat intercorse fra 2018 e 2019 con manager e funzionari di Uber Italy. Una stranezza visto che la multinazionale aveva fatto sapere ai giudici che le “relazioni commerciali sono gestite da Uber Portier B.V. (la casa madre con sede in Olanda, NdR) e non da Uber Italy Srl. Un’altra versione riguarda chi e come ha bloccato i rider “eretici” dalla piattaforma, quelli che protestavano o venivano meno alle regole imposte: “Non ne avevamo la possibilità e lo strumento” dicono Giuseppe Moltini e Danilo Donnini. Non è difficile credergli visto che non sono loro i titolari di Uber e della piattaforma informatica che controlla lavoratori e dati degli utenti. “Al contrario Uber ci imponeva con vere minacce di toglierci clienti o città e di rispettare il loro “Forecast” che ci veniva indicato settimanalmente”. Ancora: la procedura del pagamento a cottimo deriva dal fatto che Uber ci pagava nello stesso modo. Tuttavia in città come Roma, Bologna o Firenze abbiamo corrisposto ai lavoratori, per lunghi periodi (a Roma quasi sempre) un pagamento orario con l’aggiunta ulteriore di bonus. Più e più volte ci siamo lamentati con Uber affinché aumentassero il valore delle consegne, ma tutto è stato inutile, anzi, nel corso del tempo tale tariffa è sempre più diminuita in tutte le città”. Non finisce qui. Secondo gli indagati Uber impone anche l’apertura di una nuova società. Che servirà, con la flotta esterna di riders, alcune grosse catene e ristoranti “stanchi”, dicono, di avere a che fare con centinaia o migliaia di fattorini diversi ogni mese. È il caso per esempio di McDonald’s, Panino giusto, Poke House, Burger King. Nasce così la FRC Srl, spin off di una prima società. Anche e soprattutto “per ratificare gli accordi con McDonald’s” che voleva “un unico metodo di fatturazione” fa mettere nero su bianco l’indagato. Aggiungendo come il colosso dei fast food rappresenti il 70 per cento del fatturato di Uber. Così facendo “i ragazzi che collaboravano con noi avevano la possibilità, sebbene guadagnassero leggermente meno a consegna (noi pagavamo 3 euro netti – 3,75 lordi a chi usava la bici e 3,50 netti – 4,37 lordi per i motorizzati, mentre Uber paga ancora oggi una media di 3,30 netti a corsa circa) di fare molte più consegne, in quanto avevamo in esclusiva i migliori clienti”. Ma Danilo Donnini segnala un’ulteriore curiosità, che non è finita sulle cronache: “Per poter effettuare consegne per tale azienda fummo ancora una volta costretti a sottoscrivere una polizza assicurativa con massimali da 5 milioni per cautelarsi verso eventuali attentati terroristici causati dai riders della nostra flotta e da 2 milioni sulla responsabilità civile”. Cioè: rider africano (spesso) è uguale a rischio terrorismo. Stando alle memorie difensive ecco uno dei tanti ruoli ricoperti da Uber Eats. Chi ha fatto emergere tutto ciò? L’avvocato Mirko Mazzali. Che forse così “infame” e colluso con gli schiavisti, allora non è.