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Formigoni comanda ancora (era l’unico a saperlo fare)

Formigoni comanda ancora (era l’unico a saperlo fare)

di Giuseppe Santagostino

Come nell’impero raccontato da Borges dominato dai cartografi, dove la mappa era talmente precisa da coincidere con il territorio e per questo a un certo punto abbandonata, noi ancor oggi troviamo tracce del fu potere di Formigoni sparse in mille angoli della Lombardia, quasi fossero i brandelli di quella carta imperiale che affiorano ogni tanto nel deserto. A differenza dei moralisti da divano che condannano il Celeste al solo pronunciarne il nome anche perché, scandali finiti in giudicato a parte, la sua gestione della Lombardia ricoprì effettivamente come un Gran Foulard Bassetti (ironia delle presidenze lombarde) tutto quanto vi era di pubblico ricopribile, la sua prolungata presidenza ha rappresentato invece l’ultimo modello di politica ad integrazione verticale, sulla falsariga di quanto fatto dal PCI sin dal dopoguerra nelle regioni rosse. Se cominciamo a mettere la CdO di fronte alle Cooperative tosco-emiliane già il primo pezzetto di similitudine salta fuori, anche se a prima vista paiono entrambi elementi di complemento territoriali con una loro caratterizzazione regionale: l’individualista Lombardia raggruppa e coordina migliaia di piccole realtà, nelle Regioni rosse i piccoli non restano mai soli e, appena possono, creano cooperative dall’agricoltura, ai servizi, alle costruzioni.

Ma se si osserva attentamente il meccanismo ha avuto livelli di connessione assai più profondi che sono un modello per molti versi insuperato, primo fra tutti proprio grazie al ruolo delle amministrazioni locali nell’appalto dei servizi non eseguiti in house, nella costruzione dei piani regolatori dove la forma cooperativa per lungo ha sempre dato un vantaggio decisivo sino alla costruzione di politiche ad hoc, prima fra tutte la riforma sanitaria formigoniana che ha consentito la nascita di molte attività di servizio a valle della stessa. Questo legame tra azione pubblica ed economia quotidiana, anche al di fuori dei grandi appalti, lega in modo forte e con reciproco vantaggio partiti ed elettorato.

Di nuovo Formigoni introduce una modalità operativa originale con Infrastrutture Lombarde che grazie alla competenza dittatoriale di Rognoni diventa una macchina da guerra negli appalti per la ricostruzione del sistema ospedaliero pubblico lombardo e dove, parrebbe un paradosso anche se non lo è affatto, si realizza il vero compromesso storico pratico attraverso le cooperative di costruzione emiliane, fortemente coinvolte in molte di queste operazioni. Ovviamente, in assenza di opposizione alcuna a livello lombardo, va da sé l’occupazione scientifica di ogni singolo posto dove la nomina fosse di competenza pubblica, tanto che ancor oggi, a otto anni di distanza, l’esercito formigoniano è scomparso (forse) nei CdA e nei ruoli politici transeunti ma è in sonno all’interno delle amministrazioni grazie a politiche di assunzione a tappeto.

Perché un modello così rodato alla fine è sostanzialmente imploso, sia in Lombardia che in Emilia?

Per due motivi principali: da una parte la selezione di una classe politico-amministrativa su base confessionale non è ovviamente garanzia di qualità e autorità e ciò nella pratica quotidiana porta ad un distacco con l’utenza che è parte del tuo bacino elettorale anch’essa, dall’altro l’occupazione del potere per via politica è immeritocratica e ciò comporta la saldatura dei gruppi dirigenti e contemporaneamente la non scalabilità degli stessi: la duplice disillusione che parte dalla società e quella che nasce all’interno delle strutture stesse del tuo potere, provocano alla fine la dissoluzione di quelle macchine così ben rodate.

Il sistema delle grandi cooperative di costruzione, assieme a quelle della distribuzione e ad Unipol alla base della forza economica rossa, svaniti i vantaggi fiscali alle prime difficoltà del mercato immobiliate e senza più il supporto finanziario dei soci, crolla quasi completamente: a oggi la sola CMB ha dimensioni nazionali.

A Formigoni succede poi la Lega di Maroni e quella di Fontana, ovvero un Partito dalla altrettanto solida base territoriale ma privo di una mente direttiva e di un progetto che non fosse l’occupazione di ogni pertugio: il risultato di questa evidente meridionalizzazione della politica lombarda è sotto gli occhi di tutti e si accoda al nulla espresso dalla politica nazionale (dove le cose son peraltro più complesse che in Emilia o Lombardia)