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Doppio cognome, divorzio e aborto: ai diritti serve tempo per affermarsi

Doppio cognome, divorzio e aborto: ai diritti serve tempo per affermarsi

Perchè questo articolo potrebbe interessarti? Nelle ultime settimane alcuni giornali italiani, tra cui La Stampa, hanno parlato della legge sul doppio cognome, definendo il suo impatto un “flop”. La legge è entrata in vigore il primo giugno 2022. A distanza di così poco tempo è possibile fare un bilancio? La storia insegna che le leggi che hanno cambiato la società italiana, come nel caso di divorzio, aborto e unioni civili tra coppie dello stesso sesso, hanno impiegato molto tempo per affermarsi e serve sempre aggiornarle per adattarle ai cambiamenti. I diritti in Italia hanno bisogno di tempo per affermarsi.

Dal momento in cui una legge entra in vigore per arrivare all’osservazione di risvolti pratici passa del tempo. A volte si registrano dei picchi dovuti alla novità o al desiderio di reclamare un diritto che per diverso tempo non è stato accessibile. Per fare un’analisi di come stanno messe le leggi su divorzio, aborto e unioni civili tra coppie dello stesso sesso bisogna tenere in considerazione anche il contesto in cui sono maturate, gli aggiornamenti che hanno subito nel corso degli anni e non per ultimo il carattere eterogeneo del territorio italiano e della società.

I divorzi cinquant’anni dopo la legge

Sono 66.662 i divorzi al 2020 e 79.917 il totale delle separazioni. Secondo il Rapporto annuale dell’Istat del 2022, che fa riferimento ai dati del 2021, alla sezione separazioni e divorzi, si evidenzia un aumento rispetto al 2020 (+22,4% per le separazioni e +24,5% per i divorzi) e si torna a livelli simili a quelli del 2019. Per le separazioni la crescita è più consistente nel caso dei provvedimenti presso i tribunali. In particolare per le consensuali (+29,1%). Quest’ultima tipologia, che aveva registrato un calo nel 2020, evidenzia un aumento dell’1,9% anche tra 2019 e 2021.

“Stesso andamento si rileva nel caso dei divorzi consensuali. Gli accordi di negoziazione assistita con avvocati mostrano una netta ripresa”, scrive l’istituto nazionale di Statistica. Il fenomeno dell’instabilità coniugale è in crescita ma subisce delle differenze sul territorio nazionale. La propensione a ricorrere agli accordi extragiudiziali di divorzio è diffusa in tutto il Paese. Ma soprattutto tra i residenti nel nord Italia. Sul versante dei divorzi consensuali conclusi in tribunale, le regioni in cui trovano maggiore diffusione sono la provincia autonoma di Bolzano/Bozen (53,9% sul totale dei divorzi), la Basilicata (51,3%), le Marche (47,7%) e l’Umbria (45,2%). Il ricorso ai divorzi giudiziali è invece maggiore nei tribunali di Sardegna (42,7%), Calabria (42,3%), Puglia (38,8%) e Campania (37,9%).

La lunga strada per l’affermazione di un diritto

Le serie storiche di dati dell’Istat su matrimoni, separazioni legali e scioglimenti di matrimonio (divorzi), nell’arco degli anni tra il 1862 e il 2014, raccolgono i dati sulle separazioni legali già a partire dal 1879, quindi ben 91 anni prima dell’approvazione della legge sul divorzio.

Un primo picco si registra nel secondo dopoguerra, per poi quasi raddoppiare nel 1970 con 10.269 separazioni legali che diventeranno 11.796 nel 1971 contro i 17.134 divorzi ogni 100mila abitanti, primo rilevamento effettuato con l’entrata in vigore la legge. Un incremento stabile che dura negli anni e che si attesta intorno alle 88mila separazioni legali tra il 2010 e il 2014. Il divorzio invece, nella serie storica presa in esame, raggiunge un picco di 54.456 divorzi nel 2009 e comincia a diminuire, con 52.355 divorzi nel 2014.

La legge n.898

È il 1° dicembre 1970 quando il divorzio diventa legge. La legge sullo scioglimento del matrimonio viene presentata nel giugno del 1968 è ha come primo firmatario il deputato socialista Loris Fortuna. L’iter parlamentare si protrae fino al ‘70 quando la proposta di Fortuna viene combinata con quella firmata da Antonio Baslini. Viene promulgata così la legge n.898 “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”.

Con la legge 898 lo Stato ha l’autonomia di fissare le regole sullo scioglimento del matrimonio, diritto che fino a quel momento era riservato alla Chiesa. Si assiste alla messa in discussione del principio di indissolubilità del matrimonio e viene adottata una chiave di lettura che mette al centro una visione laica. L’approvazione della legge, però, vede l’opposizione della Democrazia Cristiana e la costituzione di un movimento politico che porta al referendum abrogativo del 1974: la leggenon viene abolita e si registra un 59,26% di voti per il mantenimento.

La semplificazione porta a più divorzi

La legge sul divorzio ha subito dei cambiamenti nel corso degli anni. Con la legge 55/2015 è stato introdotto in Italia il “divorzio breve”. Se in origine erano necessari cinque anni di separazione per il divorzio, poi ridotti a tre; con il “divorzio breve” basta un anno in caso di separazione giudiziale e sei mesi se la separazione è consensuale.

Nel 2015 con l’introduzione del “divorzio breve” si registra, secondo l’Istat, un consistente aumento del numero di divorzi, che ammontano a 82.469 solo nel 2015 (+57% in più sul 2014) e a 88.458 nel 2018. Il picco del 2015 potrebbe essere frutto della riduzione dei tempi, ma questo dato deve essere valutato sul lungo periodo per capire se rappresenta un cambiamento una tantum o se si tratta di un cambiamento strutturale. Il divorzio, insieme all’aborto, è una delle leggi epocali che hanno visto il prevalere dello stato laico in un paese a forte connotazione cattolica.

Dati mancanti sull’aborto

È dal 1979 che l’Istituto nazionale di Statistica, dopo l’entrata in vigore della legge numero 194/78, ha avviato, in accordo con le regioni e il ministero della Salute, la rilevazione dei casi di interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). I dati vengono raccolti per mezzo del modello individuale di dichiarazione di interruzione volontaria della gravidanza che deve essere compilato dal medico che procede all’interruzione stessa. Nel modello sono richieste notizie sulla donna e sull’intervento di interruzione della gravidanza. L’aborto costituisce un caso particolare che mette di fronte a problemi strutturali che riguardano la raccolta dei dati. Così specifica l’Istat nella nota metodologica relativa alla qualità dei dati: “Il problema principale che si è posto è il mancato invio di un certo numero di modelli di rilevazione individuali o l’elevata percentuale di “non indicato” per specifiche variabili. Si tratta quindi di problemi sia di mancate risposte totali che di mancate risposte parziali”. Il metodo applicato per l’analisi si basa, quindi, su ipotesi che non sono esaustive riguardo a un fenomeno che andrebbe esaminato nel dettaglio e attraverso le esperienze delle singole persone che accedono all’aborto.

Ieri e oggi: diritti a confronto

Tra le serie storiche sull’aborto, redatte dall’Istat, c’è quella che comprende gli anni 1985- 2004. Oltre alla suddivisione per regione, che vede il numero più elevato di interruzioni di gravidanza in Lombardia in modo costante e in Lazio, Puglia e Sicilia con andamenti altalenanti; viene fatta anche una divisione per area geografica: nel 1985 il tasso più alto si registra al nord con 89.855 aborti, per un totale di 203.157 casi in Italia, ai quali se ne aggiungono 576 aborti effettuati all’estero e 2.444 in cui non viene specificato il luogo.

Al 2004 il nord conta 58.321 aborti, contro i 27.231 del centro e i 44.216 del mezzogiorno (che comprende i dati di sud e isole). Il totale del 2004 è di 137.140, tra queste Ivg 6544 riguardano aborti in paesi al di fuori dell’Italia e 828 sono aborti sotto la voce “non indicato”, cioè senza una localizzazione. Tra alti e bassi, il numero di persone che effettuano un’interruzione di gravidanza rimane costante, ma si nota una migrazione verso l’estero dovuta alle norme vigenti in Italia che permettono l’aborto entro 90 giorni di gravidanza e anche a causa di un alto tasso di personale medico obiettore di coscienza.

Dati aggiornati al 2020

Uno dei dati più aggiornati, sull’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, è quello riportato sul sito della fondazione Umberto Veronesi: «Nel corso del 2020 in Italia sono state registrate 66.413 interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg), confermando il continuo calo del
fenomeno. Rispetto al 2019, si parla del 9,3% di aborti in meno e il nostro rimane uno dei paesi con i più bassi livelli di ricorso alle Ivg».

La conquista dell’aborto

Il primo disegno di legge sull’aborto fu proposto l’11 febbraio 1973 dal socialista Fortuna, stesso promotore della legge sul divorzio. L’iter legislativo e complicato e interviene anche la Chiesa con una Dichiarazione sull’aborto, a sancire la propria contrarietà. A fare da acceleratore è il disastro ambientale di Seveso: il 10 luglio del 1976 in seguito a un incidente industriale accaduto a Seveso, in Lombardia, viene sprigionata nell’aria una nube di diossina. La sostanza tossica è in grado di provare alterazioni nei feti.

Le donne in gravidanza sono a rischio e viene data loro la possibilità di scegliere se avere accesso all’aborto grazie a una autorizzazione del ministero della Giustizia, tutto ciò accade ancora prima che vi sia una legge nazionale. Bisogna aspettare il 18 maggio 1978 per la promulgazione della legge 194, denominata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. La legge 194 prevede che l’aborto, attuato in determinate condizioni, non è più considerato un reato. Accanto all’autodeterminazione della donna, sancita dalla legge, bisogna andare incontro anche alle esigenze dei cattolici, tanto che il legislatore riconosce espressamente il diritto di sollevare l’obiezione di coscienza.

La 194 sembra a rischio quando una raccolta firme organizzata dal Movimento per la Vita (Mpv) porta al referendum del 17-18 maggio 1981. I contrari alla proposta di revisione della legge ottengono l’88,5%, mentre le istanze portate avanti dal Mpv raggiungono il 67,9%. Negli ultimi mesi, la campagna elettorale e l’insediamento del nuovo governo hanno riportato alla ribalta la legge 194 in particolare con il disegno di legge depositato da Maurizio Gasparri, deputato di Forza Italia, che propone la modifica dell’articolo 1 del codice civile, quello che prevede il riconoscimento dell’acquisizione della capacità giuridica «dal momento della nascita”.

Unioni civili di coppie dello stesso sesso, traguardi recenti

Tra i diritti acquisiti in tempi più recenti ci sono le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Il 5 giugno 2016 è entrata in vigore la legge che ha introdotto in Italia l’istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Nel corso del secondo semestre 2016 si sono costituite 2.336 unioni civili e 4.376 nel 2017, una crescita consistente che ha riguardato verosimilmente coppie da tempo in attesa di ufficializzare il proprio legame affettivo.

Nel 2018 sono state costituite 2.808 unioni civili (tra coppie dello stesso sesso) presso gli uffici di stato civile dei comuni italiani. “Dopo il picco avutosi subito dopo l’entrata in vigore della nuova legge il fenomeno si sta ora stabilizzando”, afferma l’Istat nel report. Le unioni civili tra persone delle stesso sesso sono diminuite nel 2020 del 33,0% rispetto al 2019 e hanno recuperato, pur se non completamente, nel 2021 (-6,2% rispetto al 2019). Il calo registrato nel 2020, non compensato dalla ripresa del 2021 (circa 2mila unioni civili), accentua la tendenza alla diminuzione già in atto.

Doppio cognome, perchè è fuorviante parlare di flop

La pronuncia della Corte costituzionale sul doppio cognome è sicuramente una decisione storica. Dichiarare illegittima l’automatica assegnazione del cognome paterno costituisce un passo verso l’affermazione della parità di genere nelle coppie.
I tempi di affermazione di un diritto sono processi lunghi che hanno bisogno di sensibilizzazione ed è quello che finora è mancato per la messa in pratica di questa legge. “A Milano tra il primo giugno e il 4 ottobre sono nati 3.900 bambini: 680 hanno ricevuto il doppio cognome, prima quello paterno, poi quello materno, 25 prima quello materno e 20 hanno solo il cognome materno. Il 19 per cento dei nuovi nati e delle nuove nate non ha dunque ricevuto solo il cognome paterno. A Varese si arriva al 15 per cento, a Bologna e a Lecco a circa il 12, a Torino, Como e Brescia al 10 per cento circa, a Modena, Genova, Pavia si va dall’8,5 al 6,7 circa, mentre Firenze e Bari restano al di sotto del 10 per cento», scrive Il Post citando l’articolo della Stampa. Definire “flop” questa legge è fuorviante.
Anche qui bisogna contestualizzare e analizzare sia le vicende pregresse che i momenti storici in cui avvengono questi cambiamenti.