Home Pharma L’Italia spende 20 volte in più per curare che prevenire. “Unica strada è l’educazione collettiva”

L’Italia spende 20 volte in più per curare che prevenire. “Unica strada è l’educazione collettiva”

L’Italia spende 20 volte in più per curare che prevenire. “Unica strada è l’educazione collettiva”

Un problema fotografato dalle cifre: la prevenzione in Italia. E una soluzione. “L’unica” dice a True-News la professoressa Gloria Taliani, Ordinario di Malattie Infettive all’Università La Sapienza di Roma: “Educazione e formazione, non c’è altra via”. Perché la prevenzione “non è e non può essere un’azione individuale ma soltanto collettiva, capillare, che passa attraverso la conoscenza dei rischi che si corrono e favoriti da certi comportamenti”.

Ma partiamo dai numeri. Sulla prevenzione in Italia si spendono 112 euro all’anno per abitante. Mentre il costo procapite di cura e assistenza si attesta sui 2.473 euro. Per Taliani una “spoporzione talmente evidente da rendere quasi impossibile un’inversione di rotta”. Anche alla luce, banalmente, delle dinamiche demografiche della penisola.

I numeri macro invece, come raccontato da questa testata, sono quelli pubblicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze all’interno di un poderoso quanto puntuale lavoro di analisi della spesa sanitaria in Italia, voce per voce: sui 129 miliardi di spesa per il funzionamento del Ssn nell’anno 2021 (Nadef 2021, 7,3% in rapporto al Pil) solo 5,3 miliardi sono destinati alla “prevenzione collettiva”: 1,1 mld per le malattie infettive e parassitarie; 1 mld alla salute animale, igiene urbana e veterinaria; 899 milioni per prevenzione malattie croniche; 626 milioni alla prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro; 684 milioni alla sicurezza degli ambienti aperti; 403 milioni alla sicurezza alimentare e infine 524 milioni su altre micro voci di prevenzione. Risorse, certo, ma non solo: “Prevenire lo stato di malattia trascende la spesa – dice Taliani – la ricomprende certamente ma non è l’unico aspetto perché oltre alla cornice di carattere economico c’è ne è una di carattere clinico e ideologico”. Tradotto? “Chi si ammala cambia il proprio stato generale, la propria qualità della vita, la produttività e il benessere”.

Anche perché, banalmente, i numeri non sono tutto. Dal confronto internazionale l’Italia non esce a pezzi. Tutt’altro. “Nella cornice della spesa sanitaria generale siamo sopra la media europa (dati 2018, NdR) che è di 82 euro all’anno per abitante”. “Certo – spiega la docente de La Sapienza – ci sono nazioni come la Svizzera che ne spendono 290 ma il nostro piazzamento è superiore a quelli dei tanti Paesi europei”. Del resto a impattare sulla prevenzione – e quindi sull’assenza di incidenza per alcune patologie – potrebbero giocare un ruolo altre strategie, extra sanitarie in senso stretto, che anche a livello di contabilità e finanza pubblica non vengono registrate come voci di spesa nel capitolo della “medicina preventiva”.

In qualche modo è proprio questo l’impianto del Recovery Plan italiano: se delle sei Missioni presenti quella dedicata a “Sanità e Salute” è la più sottofinanziata, va comunque notato come nelle altre Missioni legate all’ambiente o alla coesione sociale vi siano diverse voci di spesa da miliardi di euro destinati a impattare sulla salute collettiva. È per questa ragione che il Ministero della Salute ha redatto già de tempo un documento: il Piano Nazionale della Prevenzione, in cui sono analizzati nel dettaglio tutti gli aspetti che toccano i piani più complessi della singola patologia o pratica clinica: dalla qualità dell’aria a quella del cibo fino agli ambienti di vita. Rimane un dubbio, secondo gli addetti ai lavoro. “Tutto questo grande discorrere di prevenzione alla fine si arresti per diventare un puro esercizio accademico”, fatto di modelli e protocolli ma che in qualche modo non impattano sulla realtà quotidiana dei cittadini, dei medici, degli ospedali.

Come si supera allora l’impasse dell’esercizio accademico? “L’obiettivo – spiega la docente con un paradosso, anche visti i tempi – deve essere quello di avere un Paese dove le vaccinazioni non sono più obbligatorie perché la coscienza collettiva è superiore all’imposizione di legge: prendete l’elenco delle vaccinazioni obbligatorie per l’infanzia e guardate i Paesi dove sono obbligatorie in Europa: Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Italia e altri”. “Alla fine la morale è che quando si deve arrivare all’obbligo di legge, significa che è mancato un anello fondamentale, lo stesso che rende quell’obbligo. Questo è per me un vero traguardo da raggiungere, nella consapevolezza che in assenza del coercizione il tasso di copertura crollerebbe a riprova indiretta della scarsa maturità della cittadinanza”. Una cittadinanza che è fatta da milioni di attori, fra cui anche i medici: “Il caso tipico è l’influenza: con l’uso della mascherina l’anno scorso abbiamo registrato un crollo mentre affrontavamo la pandemia e un altro tipo di allerta, ma a prescindere da queste riflessioni c’è uno studio recente che ha dimostrato come i medici in Sicilia, dove l’influenza è un problema sentito come meno impellente per ragioni climatiche, abbiano una copertura inferiore al 10%”. “Mi domando – si chiede retoricamente Taliani – come puoi convincere da medico un soggetto a mettere in atto comportamenti virtuosi senza esserne tu stesso portatore?”.

Che fare, quindi? “L’aspetto chiave rimane sempre e solo uno: la formazione. Che non può essere solo universitaria”. Per Taliani “nella cinghia di trasmissione di sapere e conoscenza si deve passare obbligatoriamente dalle scuola primarie e dell’obbligo, per non arrivare al farmaco e alla terapia o arrivarci il più tardi possibile”. Dal rischio obesità, alle patologie cardiovascolari, il fumo, l’inattività, il diabete ereditario, “andrebbero messi in piedi programmi capillari, e non solo progetti pilota, per introiettare nella coscienza del singolo individuo comportamenti virtuosi o meno dannosi. È l’unica soluzione: iniziare precocemente, nella consapevolezza che le malattie più frequenti sono prevenibili già partendo dal rafforzamento della filiera vaccinale”.

Per farlo serve un’istituzione preposta o un’Agenzia dello Stato che se ne occupi? “È assolutamente inutile – chiude Gloria Taliani –. Avere una singola struttura governativa che fa questo genere di lavoro”.