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Israele cambia dottrina sugli ostaggi: dalla punizione alla negoziazione

Proteste Israele Knesset Netanyahu riforma giustizia

Perché leggere questo articolo? Da Monaco e la punizione di Settembre Nero ad Hamas. Ecco come cambia la dottrina di Israele sugli ostaggi e la loro liberazione. 

La guerra a Gaza sta diventando un ginepraio per Benjamin Netanyahu Israele e nelle scorse giornate la protesta dei famigliari degli ostaggi rapiti il 7 ottobre scorso hanno chiesto a gran voce le dimissioni del governo. Il premier israeliano subisce il contraccolpo per non esser stato, finora, capace di dare un indirizzo politico chiaro alla campagna militare, tanto da scontentare settori della Difesa di Tel Aviv. E il rischio di un tracollo politico ha portato Netanyahu ad aprire alla possibilità di offrire ad Hamas due mesi di tregua in cambio della liberazione del centinaio di ostaggi ancora trattenuti a Gaza.

Come Israele si muove sugli ostaggi

Tale mossa segnala il vicolo cieco in cui l’Israel Defense Force si è cacciata sulla scia di una strategia deficitaria. Ma anche un cambio di intenzioni netto. Inizialmente Netanyahu proclamava che Gaza sarebbe stata espugnata e ogni uomo di Hamas sarebbe stato “un uomo morto”. Ora si torna a parlare di trattative. Cambiare strategia in forma così netta non è detto possa favorire la capacità di Israele di liberare gli ostaggi.

La dottrina di Tel Aviv è sempre stata chiara: si mirava alla linea dura. La minaccia di Netanyahu a Hamas era irrealistica in riferimento alla mole e struttura di Hamas. Non certamente in relazione allo storico delle operazioni israeliane. La linea dura israeliana ha sempre predicato, in casi del genere, la guerra totale ai rapitori o ai terroristi. Anche di fronte alla logica stessa di salvare le vite degli ostaggi.

L’attacco a Monaco di Baviera alla squadra olimpica israeliana del 1972, in cui morirono undici atleti dello Stato ebraico, è l’esempio più noto. Israele non trattò con i terroristi palestinesi di Settembre Nero. Ma dopo la loro uccisione, il 6 settembre 1972, cominciò una caccia all’uomo durata sedici anni. A fungere da deterrente contro eventuali episodi di questo tipo sarebbe dovuta essere l’Operazione “Ira di Dio”, la caccia del Mossad ai leader di Settembre Nero ovunque essi si nascondessero.

La punizione di Israele ai terroristi di Monaco

Il primo assassinio avvenne il 16 ottobre 1972 a Roma, quando il rappresentante dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in Italia, Wael Zwaiter, fu ucciso da agenti del Mossad al suo ritorno da cena. I servizi israeliani eliminarono Zwaiter colpendolo dodici volte. Subito dopo la sparatoria, gli agenti furono portati in un rifugio.

Dopo di lui, il Mossad mirò a Mahmoud Hamshari, ritenuto leader di Settembre Nero in Francia. Un agente che si spacciava per giornalista italiano attirò Hamshari fuori dal suo appartamento a Parigi, consentendo a una squadra di demolizione di piazzare una bomba sotto il suo telefono da scrivania. Il 8 dicembre 1972, la bomba esplose dopo una telefonata simulata all’appartamento di Hamshari, ferendolo mortalmente. Hamshari morì in ospedale diverse settimane dopo.

La notte del 24 gennaio 1973, Hussein Al Bashir, rappresentante di Fatah a Cipro, fu vittima di un attentato. Le luci nella sua stanza dell’Hotel Olympic a Nicosia furono spente e una bomba sotto il suo letto esplose, uccidendolo e distruggendo la stanza. Israele lo riteneva il capo di Settembre Nero a Cipro, ma sospettava anche legami con il KGB. Poche settimane dopo, il 6 aprile 1973, Basil Al Kubaisi, un professore di diritto presso l’Università americana di Beirut, sospettato da Israele di fornire la logistica delle armi per Settembre Nero, fu assassinato a Parigi durante il suo ritorno a casa da cena. Come negli omicidi precedenti, agenti del Mossad spararono circa 12 volte.

Ira di Dio, una caccia senza fine

Per affrontare obiettivi situati in case fortemente sorvegliate in Libano, l’operazione Primavera della Gioventù fu lanciata come parte della più ampia campagna “Ira di Dio“. Il 9 aprile 1973, commando israeliani sbarcarono sulla costa del Libano, agendo sotto copertura e uccisero Muhammad Youssef al-Najjar, Kamal Adwan e Kamal Nasser. Seguirono attentati in risposta, tra cui l’uccisione di Zaiad Muchasi ad Atene e il grave ferimento di Abdel Hamid Shibi e Abdel Hadi Nakaa a Roma.

Il Mossad continuò con gli assassinii, includendo Mohammad Boudia a Parigi nel giugno 1973 e altri come Ali Salem Ahmed e Ibrahim Abdul Aziz a Cipro nel dicembre 1979. Gli omicidi proseguirono negli anni ’80, con Nazeyh Mayer e Kamal Husain uccisi a Roma nel 1982, Fadl Dani a Parigi nel 1982, Mamoun Meraish ad Atene nel 1983, Khaled Ahmed Nazal ad Atene nel 1986 e Munzer Abu Ghazala ad Atene nel 1986.

Nel giugno 1986, Khaled Ahmed Nazal, segretario generale della fazione DFLP dell’OLP, fu ucciso a colpi di arma da fuoco davanti a un hotel ad Atene, in Grecia. Nazal fu colpito quattro volte alla testa. Il 21 ottobre 1986, Munzer Abu Ghazala, un alto funzionario dell’OLP e membro del Consiglio nazionale palestinese, fu ucciso a Atene. Il 14 febbraio 1988 un’autobomba esplose a Limassol, Cipro, uccidendo i palestinesi Abu Al Hassan Qasim e Hamdi Adwan e ferendo Marwan Kanafami.

Netanyahu e il ricordo del fratello caduto contro i terroristi

Nel frattempo, nel 1976, a Entebbe, in Uganda, un commando del Mossad aveva liberato un aereo di linea dell’Air France dirottato dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.L’operazione si era svolta senza che Israele si facesse scrupolo di colpire, assieme ai terroristi, anche alcuni ostaggi.

I 7 dirottatori e 45 soldati del regime di Amin Dada furono uccisi, ma morirono anche 4 dei 106 ostaggi, mentre ben 102 furono salvati. Israele subì un solo caduto. Quel caduto si chiamava Yonatan Netanyahu, era un veterano delle forze speciali di Tel Aviv e, soprattutto, era il fratello maggiore dell’attuale premier. “Bibi” non ha mai dimenticato la ferita profonda subita con la morte del fratello, suo esempio personale, e nella risposta violenta ad Hamas, oltre al cinico e adirato nazionalismo del suo governo, è sicuramente emersa anche la ferita di questa perdita. Dovuta alla percezione di un profondo stato d’assedio da parte dello Stato ebraico.

Israele in passato non temeva di sparare agli ostaggi o di sacrificarli per eliminare i terroristi. La sensazione è che la guerra a Gaza sia andata però troppo oltre. 25mila morti palestinesi, in larga parte civili, senza la vittoria militare di Israele rischiano di rappresentare un bilancio destinato a aggravarsi ulteriormente. Ma al contempo la pressione politica per la liberazione dei rapiti mostra come la fiducia nella sicurezza di Israele non sia più riposta, da parte della popolazione, nel vertice politico. E questo rischia di rompere un presupposto strategico per Israele. Il cambio di dottrina sugli ostaggi, se confermato, può rispondere a una legittima domanda umanitaria. Ma come la prenderanno i nemici di Israele fuori da Gaza? Questo è l’ennesimo dilemma nel grande dramma della guerra che sta consumando il Medio Oriente.