di Francesco Floris

Un salvataggio in mare in cambio di soldi. Ecco l’ultimo capitolo dello “scontro” fra procure siciliane e organizzazioni non governative (Ong) dedite al salvataggio dei migranti nel Mediterraneo. L’accusa che piove dalla Procura di Ragusa nasce il 5 agosto 2020. Quando la petroliera danese Maersk Etienne della Maersk Line – una delle più importanti compagnie di navigazione del globo – salva dal naufragio 27 migranti ma rimane senza possibilità di attraccare, nel solito rimpallo di responsabilità fra Italia e Malta.
L’indagine nasce qui e parla di intercettazioni con numeri danesi che dimostrerebbero il passaggio di denaro cambio del “soccorso umanitario” dopo 37 giorni in mare. Denaro che la Maersk avrebbe girato non direttamente alla Ong ma alla Idra, società armatrice della nave di soccorso. La procura parla di un “accordo di natura commerciale”. Indagati finiscono l’amministratore della società Giuseppe Caccia (già consigliere comunale e assessore a Venezia con Cacciari), il regista Alessandro Metz, il comandante della nave Luca Marrone e Luca Casarini, storica figura del Movimento No Global italiano che negli ultimi anni si è dato all’attività di “rescue” nel Mediterraneo centrale con la Ong italiana.
Le Ong? “Fanno comodo a tutti”
Il punto che nessuno tocca è quello del rapporto fra naviglio mercantile nel Mediterraneo e organizzazioni non governative. Sintomatico proprio nella terra natia della Maersk – la Danimarca – si sia sviluppato il dibattito più interessante in questo senso.
“Tutti i capitani sono costantemente sotto pressione per guidare la nave da un porto all’altro entro i tempi stabiliti” scrive ancora la docente danese in una sua ricerca. “Dal punto di vista della navigazione commerciale, il dovere di prestare assistenza è nello stesso tempo un obbligo morale e legale, e una massiccia sfida commerciale e di sicurezza per il capitano, l’equipaggio e il proprietario della nave.
Non a caso il mancato riconoscimento del ruolo ricoperto nei soccorsi e delle esigenze che comporta ha portato ripercussioni sul piano economico e su quello della sicurezza per molte navi commerciali, argomenta Åsne Kalland Aarstad, tanto da far diventare diffusa la pratica del re-routing, cioè il cambiamento delle rotte per evitare eventi di naufragio. Un contesto che ha spinto gli armatori privati ad accogliere le iniziative europee con scetticismo, come nel caso dell’operazione militare Sophia, la prima condivisa fra marine militari dei diversi Paesi Ue, come confermano le dichiarazioni di Dimitrios Banas, che all’epoca era portavoce della European Community Shipowner’s Association (Ecsa): “Il 99 per cento dei parlamentari europei che incontriamo ha solo un’idea limitata del ruolo svolto dall’industria navale nella crisi migratoria”.
I soccorsi? Devono farli gli Stati
Un contesto che forse spiega meglio i recenti fatti di cronaca finiti nel mirino dell’autorità giudiziaria italiana, incluse donazioni e passaggi di denaro. Chi sta violando la legge allora? Difficile dirlo. C’è però un fatto che viene affermato nelle quattro convenzioni internazionali che regolano il diritto del mare (Solas di Londra 1974, Sar di Amburgo 1979, Convenzione Onu di Montego Bay 1982 e Salvage di Londra 1989) e che fissano per gli Stati due obblighi fondamentali (prestare assistenza in mare, ricerca e salvataggio). Questo: “Occorre utilizzare sempre risorse pubbliche e ricorrere a quelle private in casi di evidente carenza di mezzi dello Stato”. Così ha spiegato il significato delle convenzioni Umberto Leanza, storico giurista e docente di diritto internazionale all’Università Tor Vergata, oltre che consulente del servizio contenzioso diplomatico, trattati e affari legislativi del Ministero degli Esteri, durante un seminario organizzato nella sede romana proprio di Confitarma, la confederazione italiana degli armatori. Risorse “pubbliche” e non “private”, come sono quelle degli armatori e delle organizzazioni umanitarie. Se i pm di Ragusa sono a caccia di illegalità, possono partire da queste considerazioni.