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Fini e il caso Montecarlo, anche la destra è forcaiola

Fini e il caso Montecarlo, anche la destra è forcaiola

Perché leggere questo articolo? La richiesta di otto anni di condanna per Gianfranco Fini ricordano che in Italia non è solo la sinistra a essere giustizialista. Anche la destra sa essere forcaiola per colpire gli avversari politici. Dalle case di Fini e Tremonti, passando per Marrazzo e il “metodo Boffo”. Breve storia del giustizialismo di destra.

In Italia anche la destra sa essere forcaiola. La vicenda della casa a Montecarlo di Gianfranco Fini – che in questi giorni conosce sviluppi importanti sviluppi giudiziari – è solo l’ultimo episodio di un filone giustizialista che nel corso degli anni è stato cavalcato dalla politica nostrana, non solo a sinistra. Da Boffo a Marrazzo, passando per Sircana a Scajola. Il linciaggio dell’avversario politico alle prese con vicissitudini giudiziarie vale anche a destra.

Il caso della casa a Montecarlo di Fini

L’ex presidente della Camera e segretario del Movimento Sociale prima e di Alleanza Nazionale poi è al centro di una vicenda che riguarda un’abitazione a Montecarlo. La Procura di Roma ha chiesto la condanna a otto anni Gianfranco Fini, imputato per vari reati, tra cui riciclaggio, legati all’acquisto di un appartamento a Montecarlo. Le pm hanno chiesto anche condanne a nove anni per la compagna di Fini, Elisabetta Tulliani, a dieci anni per il fratello, Giancarlo Tulliani, e a cinque anni per il padre Sergio. L’Avvocatura dello Stato, che si era costituita parte civile per le agenzie delle dogane, ne ha chiesto invece l’assoluzione.

Per sommi capi, il caso riguarda la compravendita nel 2008 di un appartamento a Monaco. Appartenuto alla contessa Annamaria Colleoni che l’ha lasciata in eredità ad Alleanza Nazionale, la casa passa subito di mano. La compra Giancarlo Tulliani, cognato di Fini, con denaro che per l’accusa proviene dalle società di scommesse del “re delle slot”, Francesco Corallo, amico intimo di Fini. Le società sarebbero state costituite ad hoc e vedrebbero un coinvolgimento chiaro del politico nella vicenda. Tulliani compra l’appartamento nel 2008 a 300mila euro, per poi rivenderlo sette anni dopo a 1 milione e 360mila. Una plusvalenza originata secondo gli inquirenti dal riciclaggio.

Il curioso tempismo della fine di Fini

L’infausto affare monegasco segna la fine della parabola politica di Gianfranco Fini. Sarà una caso, ma la vicenda comincia a emergere proprio nei giorni in cui il leader di Alleanza Nazionale inizia ad attaccare l’ultimo governo di Silvio Berlusconi. I due leader della destra sarebbero uniti nello stesso partito, il Popolo della Libertà, nato dalla fusione di Forza Italia e An nel 2008.

Nel 2010 Fini, in seguito ad alcuni clamoroso strappi con il Cavaliere, esce dal Pdl per fondare Futuro e Libertà. Un disastro elettorale: nel 2013 prenderà lo 0,3 per cento. Al naufragio politico contribuisce anche il linciaggio mediatico. Organizzato soprattutto dai giornali di proprietà o vicini a Berlusconi. Il ‘Giornale’ e ‘Libero’ – in quegli anni a direzione intercambiabile tra Belpietro e Feltri – misero in piedi tra il 2010 e il 2012 una feroce campagna ad personam contro l’allora Terza Carica dello Stato in rottura con Berlusconi. Foto di Fini al mare, reportage sulla campagna Francesca Tulliani e plastici in stile casa di Cogne dell’appartamento monegasco. Una gogna mediatica contro l’ex alleato.

Un caso simile alle vicissitudini che hanno portato all’affossamento (temporaneo) di altri due notabili del centrodestra. Come Fini, gli immobili d’occasione sono costati carissimi anche a Giulio Tremonti, finito al centro di uno scandalo per una casa a via Campo Marzio, a due passi dalla Camera dei Deputati. Fino a Claudio Scajola, proprietario di un mezzanino al Colosseo “a sua insaputa“.

La destra in Italia è forcaiola dai tempi di Mani Pulite

Le inchieste giornalistiche ad orologerie e l’uso politico della giustizia, non sono solo una prerogativa del giustizialismo di sinistra. Chi di forca perisce, spesso anche ferisce. E la destra in Italia è nata forcaiola. Basta andare a vedere le feroci manifestazioni di giustizialismo dei militanti e deputati dell’allora Movimento Sociale ai tempi di Mani Pulite. Tra il 1991 e il 1993 la formazione dei reduci del fascismo – di cui Fini ha guidato la transizione ad Alleanza Nazionale con il repulisti della svolta di Fiuggi nel gennaio 1995 – esaltavano Di Pietro. E soprattutto si prodigavano in lanci di monetine contro Craxi e invocavano condanne draconiane a esponenti della Prima Repubblica.

Non da meno in quegli anni è stata la Lega. Oggi alleata di governo di Fratelli d’Italia, ai tempi partito non inquadrabile, ma radicalmente anti-sistema. Al punto da far comparire in parlamento un cappio da impiccagione. Era il 16 marzo 1993 e il deputato Luca Leoni Orsenigo manifestò la sua avversione alla depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti con un cappio. Immagina assurta a simbolo del giustizialismo nell’Italia di Tangentopoli.

Fini e il “metodo Boffo”

La destra in Italia nasce dunque forcaiola. E crescendo ha aumentato la sua passione per mandare “in catene” gli avversario. Al punto da inventare il “Metodo Boffo“. Una locuzione coniata ai tempi della campagna di campagna di diffamazione a mezzo stampa, totalmente inventata per screditare gli avversari e distrarre l’opinione pubblica. Erano gli anni del caso monegasco di Fini. E il bersaglio della macchina del fango nel 2009 era l’allora direttore di Avvenire, Dino Boffo. Dopo aver scritto alcuni editoriali contro Berlusconi, fu accusato su il Giornale da Vittorio Feltri, che pubblicò una presunta informativa della polizia in cui Boffo era indicato come un “noto omosessuale”.

Boffo definì una “patacca” la documentazione pubblicata sul Giornale (che fu smentita anche dal gip di Terni), ammettendo invece di aver pagato un’ammenda per il reato di molestia alle persone, per una vicenda causata però da altri e cioè, da un giovane che tuttavia, nel frattempo, era morto. Il 3 settembre 2009 Boffo si dimise da direttore di Avvenire. Per le false accuse a Boffo, nel 2010 Feltri fu sospeso dall’albo dei giornalisti per sei mesi, poi ridotti a tre. Marco Tarquinio, successore di Boffo all’Avvenire, nel 2010 ha condannato il metodo Boffo, definendolo un “misfatto”, un uso della stampa “per fare del male in modo consapevole e violento”. Ma il danno ormai era fatto.

Destra e giustizialismo

Se la gogna mediatica è costata a Boffo il ruolo di direttore, gli attacchi mediatici della destra hanno portato alle dimissioni di Piero Marrazzo da Presidente della Regione Lazio. Sempre in quel drammatico periodo tra il 2009 e il 2010 l’ex giornalista è stato ricattato da quattro Carabinieri, in possesso di un video che mostrerebbe un incontro tra il presidente ed una ragazza transessuale (nota con il nome di Natalie) con apparente presenza di sostanze stupefacenti. Apriti cielo. Il 19 aprile 2010 la Corte di cassazione ha dichiarato Marrazzo vittima di un complotto organizzato da Carabinieri infedeli. Un piccolo risarcimento per Marrazzo, sputtanato dalla gogna che gli è pure costata il divorzio.