Home Politics Crisi di Torino, lo spiffero di Babando: “Abbiamo un grande futuro alle spalle”

Crisi di Torino, lo spiffero di Babando: “Abbiamo un grande futuro alle spalle”

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Perché leggere questo articolo: Bruno Babando conosce alla perfezione le dinamiche politiche, economiche, sociali di Torino. Scopriamo perché la città e la regione vivono una stasi assai complessa

“Il Piemonte troppo a lungo ha pensato di prosperare in uno splendido isolamento”: la lettura di Bruno Babando, direttore de Lo Spiffero, voce della politica e delle istituzioni all’ombra della Mole, sul futuro di Torino e del suo territorio, è approfondita e offre una vista privilegiata su un territorio sospeso tra “la rivendicazione di un passato glorioso e tante parole sul futuro, in cui molto spesso si fatica a pensare al presente senza piangersi addosso”. E anche le elezioni regionali del 2024 difficilmente saranno una scossa che cambierà le cose. Parlando con True Babando ricostruisce le dinamiche politiche, economiche, sociali e culturali di un territorio in cui la carenza di dinamismo sembra essere il nodo fondamentale.

Direttore, per parlare del Piemonte bisogna innanzitutto parlare di Torino. Qual è la condizione attuale della città?

“Quello che vediamo è una città che è sospesa. Verrebbe da dire che a Torino abbiamo un grande futuro alle spalle. Il Piemonte si porta dietro il peso del suo capoluogo. La città vive ad oggi una grande crisi d’identità dovuta a una lunghissima fase di trapasso da un sistema industriale monotematico a un qualcosa di non ancora ben definito, essendosi esaurita la possibilità di dare alla città una prospettiva nuova con le Olimpiadi”.

Giuseppe Berta diceva che senza la Fiat Torino è costretta a giocare in Difesa. Qual è la grande sfida del capoluogo?

“Il passo da fare è ostico per i torinesi: riuscire a fare molte cose contemporaneamente. È ostico ai piemontesi questo modo di pensare. La città ama primeggiare, ma scegliendo sempre una cosa alla volta: altre grandi città come Milano si sono contraddistinte per dinamismo multipolare su più settori”.

Una città orfana di un re

Da cosa nasce questo freno?

“Torino unisce una doppia eredità: essere stata città di corte e avamposto militare. Quali sono i principi che derivano da ciò? Una costante tendenza a coniugare sudditanza e ubbidienza. Due principi che cozzano con una visione aperta alla modernità. Quando è morto l’Avvocato ritenevo, sbagliando, che proprio perché la famiglia Agnelli ha rappresentato per Torino una leva di sviluppo ma anche un coperchio che ha in qualche modo tenuto sotto pressione la vitalità, la sua scomparsa avrebbe costretto la città a sprigionare la vitalità”.

Una città orfana della monarchia, i Savoia, ma sempre in cerca di un re…

“Si, e ai tempi di Giovanni Agnelli il refrain di fronte a qualsiasi problema in città era chiedersi “cosa ne pensasse l’Avvocato”, ma spesso l’Avvocato usava professionalmente Torino per vivere altrove. Scorrendo le cronache possiamo vedere poi una differenza tra i personaggi più importanti di Torino e Milano: scopriamo che a Torino sono gli stessi da trent’anni, escono di scena solo per raggiunti limiti d’età o morte naturale, come se fosse una nobiltà feduale. A Milano maggior c’è maggior ricambio, a Torino i newcomer fanno fatica ad emergere”

Il sogno di Torino e la Pax Olimpica

Cosa resta della volontà di sviluppo e integrazione con Milano che contraddistinse l’inizio degli Anni Duemila?

“Il sistema-Torino ha retto nella Pax Olimpica di inizio secolo, che sembrava dovesse dare nuovo impulso alla città. Nella costruzione di un nuovo modello di città ben convivevano Ghigo e Chiamparino, governatore di centrodestra e sindaco di centrosinistra rispettivamente. Si parlava della riconversione post-industriale di ampie aree, Mirafiori, ad esempio, tramite la società TNE che aveva l’obiettivo di rigenerare le aree urbane acquistate dalla Fiat”.

Che aspettative c’erano per la Torino postolimpica?

“Si pensava alle Olimpiadi invernali del 2006 come volano per la trasformazione e come vetrina turistica, politica e economica. All’inizio si pensava che l’appuntamento olimpico dovesse essere, anche grazie alla valorizzazione del Museo Egizio e delle bellezze architettoniche, il volano per un turismo destinato a creare opportunità business. Questo permetteva che reggesse una concordia istituzionale.

Le banche e il sistema Torino

Il tutto all’ombra di banche, fondazioni e mondo culturale…

“Si, infatti quasi contestualmente a quell’esperienza nacque Intesa San Paolo attraverso un processo di fusione e cooperazione che apre alla cooperazione con Milano. La grande fucina di questo progetto, che poi si è rivelato solo bancario, fu il mondo bancario che faceva riferimento a Enrico Salza, fautore del vecchio progetto “MiTo”, che fu però vissuto in città come se il capoluogo lombardo stesse procedendo alla progressiva spogliazione delle ricchezze della città. Di quella esperienza a Torino è rimasta la sede banca con un grattacielo che appare un fungo sull’orizzonte cittadino mentre la vera operatività è in Lombardia e la rassegna culturale MiTo”.

La fragilità del sistema è parsa palese con l’elezione a sindaco di Chiara Appendino nel 2016?

“Questo sistema è stato molto chiuso, Intesa e l’ascesa di enti come il Politecnico mostrano che in certi casi ha prodotto risultati ma si è ritrovato ostile a un sostanziale ricambio. Prima ancora di essere sconfitto da Chiara Appendino, che ha vinto facendo campagna contro il sistema-Torino, si è eroso al proprio interno. Un esempio della sclerotizzazione di questo sistema lo si ebbe nel 2012, quando il sindaco Piero Fassino nominò il suo predecessore Sergio Chiamparino, futuro presidente di Regione, a capo della Compagnia di San Paolo: il simbolo di un intreccio incestuoso e della difficoltà a far presa su nuovi soggetti, oltre che di una scarsa vocazione all’innovazione che contraddistingue il mondo torinese. A cui Appendino ha sostanzialmente dato la spallata finale, senza però costruire un’alternativa sistemica”.

Come si lega questo alle dinamiche del resto della Regione?

“Non tutto il Piemonte è Torino. Il Piemonte profondo che ha trainato il centrodestra nel 2019 e probabilmente lo riconfermerà nel 2024 si è sempre sentito ai margini di Torino e alla città non guarda più come un modello di riferimento. È molto legato al territorio in un modo parossistico: queste radici sono portate all’eccesso in un iperlocalismo di tradizioni, localismo e via dicendo. Ma esistono e sono ben rappresentate nella giunta Cirio, che dall’insediamento chiamiamo “giunta barotta”, ovvero profondamente provinciale.

Torino e il Piemonte della periferia

Come la Giunta reagisce a questa identificazione?

“Inizialmente era una definizione che non piaceva. Poi l’hanno trasformata in un loro tratto distintivo proprio perché nella gerarchia degli interessi di questa giunta Torino non è necessariamente al primo posto assoluto. Lo stesso Cirio rivendica le sue origini da una famiglia di agricoltori cuneesi con orgoglio”.

Cirio, eletto nel 2019, e Lo Russo, sindaco di Torino in sella dal 2021, come dialogano e si confrontano?

“Mentre il tempo passa e invecchio invocando un ricambio generazionale che non c’è oggi osservo che c’è l’embrione di una nuova concordia istituzionale tra due soggetti deboli sia verso l’interno che verso l’esterno: Alberto Cirio, governatore, è palesemente estraneo, un marziano rispetto a Torino. È di Alba, uno delle Langhe, territorio estraneo al Piemonte stesso. L’altro contraente di questo patto è Stefano Lo Russo, sindaco Pd arrivato a governare in maniera rocambolesca dopo esser stato scelto all’ultimo dal stesso partito ed eletto sindaco da meno della metà degli aventi diritto: su di lui pesa una carenza di consenso. A differenza di Cirio, che sprizza empatia, Lo Russo è compassato, sobrio e poco incline ai rapporti che vadano oltre la macchina amministrativa. Attorno a loro due, costretti a collaborare per la palese debolezza a casa loro e all’esterno, c’è la sostanziale difficoltà a ricostruire un altro sistema.  A Torino domina un piagnisteo generale, è una città che ama interrogarsi sul “da dove veniamo” mentre tutto il resto del mondo fa e si mette all’opera”.

Le Regionali? Non decisive…

Come uscire da questa situazione?

“Le classi dirigenti non si formano in vitro ma emergono laddove ci sono forti interessi con tutto quello che ne consegue: investimenti, cultura, personalità, carattere, capacità di fare compromessi. Andare alla ricerca col lanternino di una nuova classe dirigente tramite ricambi politici è fuorviante. È lo specchio di uno scarso dinamismo generale, con eccezioni: non è un caso che la provincia più dinamica sia Novara, che guarda a Milano”.

Dunque anche le Regionali di giugno, dove Cirio mira alla riconferma e il centrosinistra brancola nel buio, non saranno cruciali?

“È un voto che sarà poco sentito: il Piemonte continua a “proporsi al futuro”. Ma quello che manca è il presente. Tutti parlano o di ieri o di domani: a quest’ultima sfera afferiscono i discorsi su sviluppi di Tav, idrogeno e via dicendo. La mancanza del presente è trasversale e drammatica e non sarà un voto a cambiarla, a prescindere dai nomi. Io ritengo che ci sarà la riconferma di questa maggioranza, che non ha brillato per presentare grandi idee ma non ha fatto grossi danni. Il Covid ha di fatto anestetizzato la carestia progettuale della giunta. Ma ci sono alcuni problemi strutturali e parto dalla sanità: gli ospedali sono tra i più vecchi d’Italia, non siamo riusciti a farne partire di nuovi e dobbiamo ristrutturare i vecchi. La produzione legislativa è stata bassissima. In questa eterna stagnazione, non è una singola elezione che può svoltare”.