Home Future La moda che fa politica: quando il rosa era un colore da maschi

La moda che fa politica: quando il rosa era un colore da maschi

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Rosa colore da femminucce, azzurro colore da maschietti. Uno stereotipo talmente interiorizzato che la maggior parte di noi non si è mai nemmeno chiesta il perché, dando questo abbinamento per scontato. Eppure non è sempre stato così, anzi, in passato era tutto il contrario, a dimostrazione di quanto la moda e il marketing possano modificare i codici e le norme sociali.

“Dagli Anni 90 dell’Ottocento fino agli Anni 40-50 del Novecento il rosa è sempre stato il colore dei maschi, perché richiamava quello del sangue, poi la prospettiva è cambiata”, ha raccontato Emanuela Abbatecola, sociologa femminista e docente presso l’Università degli Studi di Genova, co-fondatrice e direttice della rivista AG – About Gender, International Journal on Gender Studies, all’educational organizzato da IED Moda “Maschi con la gonna. Moda, codici estetici e processi di (de)costruzione del binarismo di genere”. 

“Il sangue per i maschi ha un valore importante, perché richiama la virilità e le ferite di guerra, mentre per le femmine ricorda le mestruazioni e magicamente diventa un tabù. In passato c’era l’idea che la donna mestruata non potesse fare il pane o non potesse entrare in chiesa… Il blu, invece, era il colore delle donne e delle bambine, perché rappresentava il colore del velo della Madonna”.

Colore rosa: significato e storia

La rivoluzione è cominciata all’inizio degli Anni 40 su influenza della haute couture francese, in cui il rosa era tradizionalmente associato alla femminilità, mentre l’azzurro, in voga nel mondo degli affari, ha progressivamente cominciato ad acquisire virilità e mascolinità. Le aziende di moda hanno poi cavalcato questa associazione,  trasformandola in una strategia di marketing di grande successo, che facilitava il processo decisionale dei consumatori. Questo tendenza si è sviluppata ancor più a partire dagli Anni 80 con la diffusione della diagnosi neonatale e la conseguente possibilità di conoscere il sesso del nascituro prima del parto. Oggi siamo nel pieno della stereotipizzazione, che si traduce anche nella nuova moda del gender reveal party.

Non tutti quelli che fanno moda adottano necessariamente un approccio politico, però è necessario essere consapevoli del fatto che ogni scelta non è neutrale ed è collegata ad un intero schema culturale. “Insieme a Luisa Stagi abbiamo fatto una ricerca nelle scuole dell’infanzia, pubblicata nel libro Pink is the new black”, prosegue Abbatecola. “Entrando nelle aule ci siamo rese conto di quanto rosa ci sia in tutto ciò che appartiene al territorio delle bambine: rosa i vestiti e i giocattoli, rosa gli oggetti e gli accessori, e poi ci siamo accorte che c’erano altrettanti marcatori di mascolinità, come le forbici azzurre dei maschi”.  E ancora: “L’educazione delle bambine consiste nell’essere brave a scuola, mentre il modello maschile prevede anche il saper rompere le regole. I maschi sono considerati meno affidabili, più ribelli e, se non è così, i genitori iniziano a preoccuparsi”. 

Anche questo messaggio è passato a lungo attraverso la pubblicità: “I giochi per bambine venivano insistentemente definiti “facili”, i Lego per bambine avevano meno pezzi, i corpi delle Fashion Dolls, come si chiamavano allora le Barbie, dovevano essere belli, gambe e capelli lunghi ed erano rigidi. I corpi degli Action Figures erano invece smontabili e prestazionali. Oggi la Barbie Make to move ha un corpo più flessibile, ma l’accento viene messo sul fatto che va in palestra per fare yoga e pilates allo scopo di essere sempre in forma.

Gli stereotipi della mascolinità 

Anche all’interno della mascolinità poi diversi stereotipi. “Esiste un modello di mascolinità egemonica e tossica, che giustifica la subordinazione delle donne. Ma ci sono anche dei nuovi maschi, che si dicono femministi, perché hanno capito che il patriarcato ingabbia non solo le donne, ma anche gli uomini, ad essere in un certo modo predeterminati”. Per esempio, gli uomini nel mondo occidentale non possono portare la gonna, anche se nelle sfilate la vediamo sempre più spesso, insieme al colore rosa: “Perché ancora oggi il patriarcato si nutre di modelli educativi per cui si insegna al maschio, indipendentemente da qualsiasi sua identità di genere, ad essere diverso dalle femmine. Pensiamo anche ai tradizionali moniti ‘Non fare la femminuccia’ oppure ‘Non andare a danza classica’”.

“Bisogna poi considerare in che modo viene rappresentato il maschio che indossa la gonna”, sottolinea Ale/Sandra Cane, autor* e ricercator* indipendente di queer studies e cultura palestinese contemporanea. “Da una parte abbiamo una serie di maschi come Harry Styles, la cui decisione di mostrarsi con la gonna in copertina su Vogue viene vista come una messa in discussione della nostra comunità tossica. Allo stesso tempo è successo recentemente che una persona non binaria come Sam Smith sia stata criticata non solo dal  mondo etero, ma anche dalla comunità omosessuale: è stato visto come un uomo “grasso”, e quindi senza diritto di avere questo tipo di visibilità. È importante leggere in maniera intersezionale, quindi, i diversi modi in cui i corpi sono attraversati da dinamiche di potere, e quindi come anche la rappresentazione della mascolinità non tossica possa avere degli esiti differenti”.

“L’interiorizzazione del sessismo è trasversale, nel senso che influisce e contamina il mondo gay e lesbico. Guardando ad esempio alle copertine della rivista Pride, vediamo muscoli in abbondanza e sguardi truci, che potrebbero piacere sia ad un uomo che ad una donna, si tratta di un modello molto etero. Anche all’interno dell’immaginario gay questo è un modello molto dominante, perché c’è un sessismo molto potente anche qui: più sei effeminato, meno vali. Le donne transessuali delle generazioni precedenti venivano cacciate di casa e l’unica alternativa per loro era la prostituzione, mentre gli uomini trans possono subire attacchi violenti ma, transitando verso il polo dominante, acquisiscono potere e non saranno mai discriminati quanto una donna trans”. 

Il ruolo politico della moda

Insomma, da una parte c’è l’abbigliamento che, in quanto indossato, ha un valore politico, quindi può essere utilizzato per decostruire stereotipi ed affermare una posizione rispetto ad un’altra; dall’altra parte c’è un’industria creativa che utilizza gli abiti per i suoi fini più commerciali, appropriandosi delle lotte sociali. La moda può essere politica in maniera più o meno esplicita, anzi, a volte è più politica quando non si dichiara, ma effettivamente modifica i codici e le norme sociali attraverso un processo che parte dalle passerelle e arriva al consumatore finale.