Home Future Quando la guerra è un’adv, tra post sponsorizzati e “shadowbanning”

Quando la guerra è un’adv, tra post sponsorizzati e “shadowbanning”

Quando la guerra è un’adv, tra post sponsorizzati e “shadowbanning”

Mentre la guerra a Gaza si fa sempre più drammatica, anche lo scontro sui social si fa sempre più esasperato. Si stanno moltiplicando in tutto il mondo, Italia inclusa, le voci di chi accusa le varie piattaforme di favorire i contenuti pro-Israele e di nascondere invece la voce dei palestinesi. Uno dei casi più eclatanti è stato quello dell’account Instagram Eye on Palestine, seguito da oltre 6 milioni di persone: Meta lo ha bannato per “ragioni di sicurezza” (un tentativo di hackeraggio) e poi lo ha riattivato, ma nel frattempo si sono levate ondate di protesta da ogni angolo del web.

I post sponsorizzati di Israele

Certo è, come abbiamo già raccontato su True-news.it, che mai prima d’ora avevamo visto una guerra trasferirsi così totalmente anche in Rete, generando dinamiche completamente nuove. Questo è stato evidente sin dai primissimi giorni di conflitto: dopo l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas, Israele ha inondato i social media per modellare l’opinione pubblica a suo favore, in particolare nei principali paesi occidentali, in modo da ottenere sostegno alla sua risposta militare. La strategia da parte del Ministero degli Affari Esteri israeliano è stata quella di diffondere dozzine di post contenenti immagini brutali ed emotive su piattaforme come X e YouTube, proprio come si trattasse della campagna pubblicitaria di un qualsiasi brand commerciale.

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Questo tentativo di vincere la guerra dell’informazione online rientra in una tendenza crescente da parte dei governi di tutto il pianeta a muoversi aggressivamente sul web per modellare la propria immagine, soprattutto durante i periodi di crisi. La  propaganda e le campagne di pubbliche relazioni intorno alle guerre non sono una novità, è vero, ma pagare per una pubblicità online targettizzata è un passo ulteriore per far sì che i propri messaggi raggiungano un maggior numero di persone in modo molto più mirato.

Campagne social targettizzate  

In concreto, da uno studio di Politico.eu risulta che in poco più di una settimana il Ministero degli Affari Esteri israeliano ha pubblicato 30 annunci su X, che sono stati visualizzati più di 4 milioni di volte: in particolare, i video e le foto a pagamento che hanno iniziato ad apparire il 12 ottobre erano rivolti agli adulti sopra i 25 anni a Bruxelles, Parigi, Monaco e L’Aia. Uno di questi video sponsorizzati, per esempio, mostrava immagini inquietanti, accompagnate dal testo alternato tra ISIS e Hamas, che gradualmente acceleravano fino a quando i nomi delle due organizzazioni terroristiche si fondevano in uno solo.

Il mondo ha sconfitto l’Isis. Il mondo sconfiggerà Hamas”, concludeva lo spot. Con la sua narrativa Israele ha ampiamente preso di mira l’Europa per ottenere sostegno. Quasi 50 annunci video in inglese sono stati indirizzati ai paesi dell’UE, mentre agli spettatori negli Stati Uniti e nel Regno Unito sono stati indirizzati rispettivamente 10 e 13 annunci.

Da parte loro i giganti dei social media hanno stabilito standard per il tipo di contenuto che può essere pubblicato sulle loro bacheche, anche perché secondo il Digital Services Act (DSA) dell’Unione Europea chi non rimuove rapidamente i contenuti illegali, inclusa la propaganda terroristica, e non limita la diffusione di falsità, rischia multe salate fino al 6% delle entrate annuali globali. 

L’accusa di shadowbanning

L’accusa mossa dal popolo del web, però, è che Facebook, Instagram, X, YouTube, TikTok & co. stiano censurando soprattutto le voci filo-palestinesi e i contenuti critici nei confronti di Israele: una pratica nota come shadowbanning. Autori, attivisti, giornalisti, registi e utenti abituali di tutto il mondo hanno affermato che i post contenenti hashtag come #FreePalestine e #IStandWithPalestine, nonché messaggi che esprimono sostegno ai civili palestinesi uccisi dalle forze israeliane, vengono nascosti dalle piattaforme. 

Questo mese 48 organizzazioni, tra cui 7amleh e l’Arab Centre for Social Media Advancement, che difende i diritti digitali della società civile palestinese e araba, hanno rilasciato una dichiarazione in cui esortano le aziende tecnologiche a rispettare i diritti digitali palestinesi durante la guerra in corso. “Siamo preoccupati per la censura significativa e sproporzionata delle voci palestinesi attraverso la rimozione di contenuti e l’occultamento di hashtag, tra le altre violazioni”, si legge nella dichiarazione. “Queste restrizioni agli attivisti, alla società civile e ai difensori dei diritti umani rappresentano una grave minaccia alla libertà di espressione e all’accesso all’informazione, alla libertà di riunione e alla partecipazione politica”.

In  realtà, tornando al caso di Eye on Palestine, Meta ha spiegato di aver sospeso l’account a causa di un tentativo di hackeraggio, che era stato rilevato anche a maggio, e non a causa dei contenuti condivisi. Spesso, poi, capita che di fronte a improvvise esigenze di monitoraggio massiccio su un tema possano essere commessi degli errori di moderazione, sia da parte degli esseri umani che dell’Intelligenza Artificiale.

La guerra sui social

“Bisogna poi considerare che a Gaza le infrastrutture di telecomunicazioni sono state pesantemente danneggiate (fino all’interruzione completa dei collegamenti, ndr). Quindi sarebbe comunque difficile immaginare un forte sforzo di contromessaggio da parte di gruppi filo-palestinesi che potrebbero utilizzare lo stesso mezzo pubblicitario”, ha sottolineato Emerson Brooking, membro senior del Consiglio Atlantico, a Politico.eu. “In questo senso nel campo di battaglia dei social media Israele ha un reale vantaggio”.