Home Future Microplastiche nell’acqua, quante ce ne beviamo? Ecco come ridurle 

Microplastiche nell’acqua, quante ce ne beviamo? Ecco come ridurle 

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Perché leggere questo articolo? Spesso nella nostra vita quotidiana non ci accorgiamo di come piccoli gesti potrebbero migliorare la nostra salute e quella del Pianeta, a partire, per esempio, dalla diffusione delle microplastiche inquinanti nell’acqua: ecco come possiamo intervenire, cambiando i nostri comportamenti

Nei giorni scorsi la Commissione europea ha adottato una metodologia armonizzata e standardizzata per misurare la presenza delle microplastiche inquinanti nell’acqua destinata al consumo umano. Una misura, che segue l’emanazione di un nuovo regolamento Ue del 25.09.2023, che punta ad aiutare gli Stati membri a raccogliere informazioni sulla presenza delle microparticelle inquinanti nella propria catena di approvvigionamento idrico, facilitando l’interpretazione e il confronto dei risultati. “Vogliamo garantire che l’acqua che utilizziamo, dalle bevande all’irrigazione, soddisfi sempre gli standard di sicurezza più elevati”, ha dichiarato il Commissario per l’ambiente Virginijus Sinkevicius.

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Che cosa sono le microplastiche

Le microplastiche, frammenti invisibili all’occhio umano, hanno dimensioni comprese tra 5 mm e 0,1 µm, mentre le nanoplastiche hanno dimensioni ancora più ridotte, nell’ordine di nanometri, e per questo sono ancora più insidiose. Non tutte le microplastiche, poi, sono uguali. Quelle primarie sono realizzate di proposito in dimensioni ridotte per essere usate – ad esempio – nei cosmetici (trucchi, detergenti, dentifrici), nelle vernici, nelle paste abrasive e nei fertilizzanti, per le loro proprietà esfolianti e leviganti. Quelle secondarie, la stragrande maggioranza rilevata negli oceani, sono invece originate dall’usura, dal deterioramento e dalla frammentazione di materiali in plastica di dimensioni maggiori, come bottiglie, buste di plastica, tessuti sintetici o copertoni delle ruote.

La plastica è dentro di noi

Le micro e nano plastiche non si disciolgono in acqua, ma si degradano lentamente e sono facilmente ingeribili dagli organismi viventi, arrivando così alle acque potabili e agli alimenti: pesce, carne, frutta e verdura (mele e carote le più contaminate), miele, zucchero, sale e birra. “Si stima che possiamo ingerire da 0,1 a 5 grammi alla settimana di invisibili pezzetti di plastica, un contenuto quasi pari a quello di una carta di credito”, ha dichiarato all’Agenzia Dire Daniela Gaglio, responsabile scientifico dell’Infrastruttura di Metabolomica dell’Istituto di Bioimmagini e Fisiologia Molecolare (IBFM) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Il team di ricercatori ha dimostrato in via sperimentale che le cellule sottoposte all’esposizione acuta e cronica di particelle di polistirene mostrano un’alterazione del metabolismo e un aumento dello stress ossidativo, evidenziando così il potenziale effetto sulla salute. 

Dal makeup ai lavaggi in lavatrice

Il tema delle microplastiche, che l’Ue mira a ridurre del 30% entro il 2030, non riguarda solo l’industria, ma tocca da vicino tutti noi. Per esempio, dal 17 ottobre 2023 è stata vietata la vendita dei glitter in plastica, non biodegradabili, che si trovano in tanti prodotti che usiamo nella nostra vita quotidiana, dagli abiti ai giocattoli, dalle decorazioni di Natale ai cosmetici (in quest’ultimo caso la normativa ha però previsto un periodo di transizione). Anche i lavaggi in lavatrice dei tessuti tecnici possono produrre fino a 700mila microplastiche ogni sei chili di bucato: una quantità che si può ridurre grazie agli appositi filtri per microplastiche per lavatrici.

Acqua in bottiglia: quanta plastica

Decisamente più evidente è la produzione di plastica che facciamo bevendo quotidianamente acqua nelle bottiglie in Pet, che hanno una vita media stimata intorno ai mille anni e non sono biodegradabili: una famiglia media di quattro persone ne genera in un anno ben 72 kg. Una quantità che, per essere prodotta, richiede l’utilizzo di 137 kg di petrolio e comporta l’emissione di 242,1 kg di CO₂, come stimato dall’Impact Simulator di Culligan, società esperta nel settore del trattamento dell’acqua, che mette a disposizione dei cittadini un efficiente tool per misurare la responsabilità ecologica sulla base del consumo annuo di acqua in bottiglia.

“Educare e informare correttamente il pubblico è cruciale per promuovere comportamenti sostenibili e un consumo consapevole delle risorse idriche, sempre con un occhio di riguardo alla salute”, dichiara Antonio Ambrosi, Director, Global Product Management – Filtration. Per esempio, spesso si dice che l’acqua in bottiglia è di migliore qualità, ma l’acqua del rubinetto è sottoposta a maggiori controlli e a norme che stabiliscono limitazioni più rigide. “Le normative che regolano le acque minerali in bottiglia sono stabilite dal DM 10 febbraio 2015 e sono diverse da quelle delle acque potabili (D.Lgs 18/2023): molti dei parametri normati per le acque di rete non presentano, nel caso delle acque in bottiglia, un limite stabilito per legge. Ad esempio, arsenico, manganese o solfati possono essere presenti nelle acque minerali in commercio in quantità superiori rispetto ai parametri ammessi per l’acqua del rubinetto. 

Secondo uno studio dell’Irsa, l’Istituto del Consiglio Nazionale di Ricerca deputato al controllo della qualità dell’acqua, siamo al quinto posto in Europa per qualità dell’acqua di acquedotto, merito soprattutto dell’origine sotterranea che caratterizza l’85% delle nostre fonti. “Vero è che il controllo e la sicurezza dell’acqua di acquedotto sono garantite fino al contatore di casa, oltre il quale la competenza è dell’utente finale: la manutenzione periodica delle tubature, l’igienizzazione e l’apposizione di semplici filtri al punto d’uso (per eliminare cloro, torbidità ed eventuali sali in eccesso) sono buone prassi da adottare per ottenere a casa propria un’acqua gradevole e più sicura”.