Home Economy Gedi declassa Meloni. Ma l’ipotesi governo tecnico ha un rating bassissimo

Gedi declassa Meloni. Ma l’ipotesi governo tecnico ha un rating bassissimo

Gedi declassa Meloni. Ma l’ipotesi governo tecnico ha un rating bassissimo

Perché leggere questo articolo: Si parla del triplo salto carpiato downgrade del rating-crollo di Meloni-governo tecnico. Ma è un’ipotesi reale? Da Travaglio a Fornero, anche molti critici dell’esecutivo non sembrano crederci affatto

Le agenzie di rating abbaiano ma non mordono? Troppo spesso il “giudizio dei mercati”, di cui si è tornato a parlare, è usato politicamente come manganello da parte di una componente politica per disarcionare l’avversario di turno. Il tema del “voto” dei mercati fu usato per giustificare la caduta del governo Berlusconi IV nel 2011, evocato da Forza Italia, che quel colpo a base di spread l’aveva subito, nel 2018 assieme al Pd e nel 2020 in solitaria per criticare i governi Conte ed è oggi rilanciato dai quotidiani del gruppo Gedi contro Giorgia Meloni.

Agenzia che abbaia non morde

“Declasseremmo probabilmente i rating dell’Italia se dovessimo anticipare un significativo indebolimento delle prospettive di crescita di medio termine del Paese, probabilmente a causa della mancata attuazione delle riforme per rafforzare la crescita, comprese quelle delineate nel Pnrr del paese”: non è un commento dell’altro ieri, ma un commento dell’agenzia di rating Moody’s dell’agosto 2022, a un mese dalle elezioni.

A ottobre 2022, stessa litania dopo la vittoria del centrodestra. Infine, a aprile di quest’anno, nel pieno della lotta sulla revisione del Pnrr, un nuovo affondo dell’agenzia di rating americana, che minacciò il declassamento sulla base di dati spiegati dal professore della Bocconi Tommaso Monacelli: “la forte esposizione all’aumento dei tassi della BCE (vista la enorme mole di debito pubblico, quest’anno pagheremo oltre 70 miliardi di euro solo di interessi, dai circa 60 dell’anno scorso) e le incertezze legate alla effettiva messa a terra dei soldi del Recovery possono indurre l’agenzia di rating a peggiorare la sua pagella”. Sempre Moody’s, sempre di rating si parla, sempre di minacce di declassamento: ebbene, ad oggi, per l’Italia nulla di questo si è concretizzato.

Gli ultimi downgrade per Roma sono dell’epoca pandemica, aprile 2020, ad opera di Fitch e Moody’s prima del bazooka della Banca centrale europea che sostenne il debito messo in ginocchio dalla pandemia.

La logica del partito del rating (e dello spread)

Non si tratta di difendere a spada tratta l’ambivalente politica economica del governo Meloni quando si sottolinea che usare l’arma politica del rating significa svuotare d’essenza la democrazia. Ben lo dimostra quanto avvenuto in questi giorni: il dibattito sul possibile avvicendamento tra Meloni e un governo tecnico a Palazzo Chigi a seguito di un crollo del rating del debito italiano nei prossimi mesi è stato lanciato da La Stampa.

Tanto da far scendere in campo perfino un avversario tenace del governo Meloni come Marco Travaglio, per il quale “il peggiore dei governi politici è sempre meglio del migliore dei governi tecnici”.  Il silente partito dello spread pensa ai mercati come decisori che si orientino sulla base di un’astratta fiducia legata alla rispettabilità politica. In realtà contano solo gli affari. Conta fare soldi, e oggi l’Italia è una nazione il cui debito paga in tempi di alta inflazione tassi vicini al 5% con alle spalle un’economia che annaspa ma non è affondata.

La logica del “partito dello spread” che ha in Massimo Giannini, direttore de La Stampa, è chiara: Meloni sarà messa da parte da un aumento dell’indebitamento e dei tassi dettato da un declassamento a “spazzatura” del debito italiano delle agenzie di rating. Un fatto che imporrebbe, per statuto, i grandi fondi d’investimento a scaricare sul mercato il debito italiano. Chi glielo dice ai grandi investitori che con la crisi energetica, l’inflazione vischiosa e i tassi alti bisogna pure far esplodere il bubbone del debito italiano?

Gli errori di Giannini sul rating

Giannini in un editoriale su La Stampa ha fatto notare l’autunno caldo che si prospetta: “Il 20 ottobre tocca a Standard&Poor’s, che finora ci ha assegnato una tripla B. Il 27 ottobre tocca a Dbrs, ferma a sua volta sulla tripla B. Poi si potrebbe profilare davvero un “novembre nero”: il 10 è la volta di Fitch, mentre il 17 chiude in bellezza Moody’s, fino adesso ferma su uno scivoloso Baa3”. I casi dei mancati declassamenti di Moody’s in tempi in cui la crisi era più palese per il Paese insegnano che spesso una delle agenzie grida “al lupo” sul debito pro domo sua, o per condizionare politicamente l’azione di un esecutivo. Ma che dopo gli errori di inizio secolo, con rating assegnati e revocati con leggerezza, le agenzie, dietro cui ci sono i grandi fondi d’investimento, sono molto più restie a penalizzare un Paese.

Giannini, poi, sbaglia su un dato. Scrive che basterebbe un solo downgrade “a trasformare i Btp italiani in titoli spazzatura. Pioverebbero pietre, visto che l’anno prossimo dobbiamo collocare oltre 300 miliardi di bond senza l’ombrello della Bce. Uno scenario da incubo”. A frenare gli allarmismi c’è la considerazione che questa constatazione è però errata. Lo ha spiegato bene Marcello Zacchè su Il Giornale: “si diventa spazzatura solo quando tutte le tre grandi agenzie di rating tolgono l’investment grade. E, al momento, per Standard & Poor’s l’Italia è due gradini sopra al limite (uno più di Moody’s) e lo stesso vale per Fitch”. Servirebbero dunque almeno cinque declassamenti per vedere i Btp trasformati in titoli-spazzatura, e non può avvenire dall’oggi al domani.

“I governi devono essere politici”: il punto di Fornero

Come sarebbe possibile, del resto, in un’Europa in cui ancora non si conoscono i futuri equilibri del Patto di Stabilità? In cui non si sanno gli effetti macroeconomici del Pnrr, che l’Italia per ora sta chiedendo con regolarità? In cui continuano a esistere problemi strutturali legati all’eredità di Covid e crisi energetica? In quest’ottica solo governi pienamente legittimati possono prendere le decisioni che poi dovranno giustificare davanti al Paese, a pochi mesi dalle elezioni europee. Riteniamo che il “tecnico” per eccellenza, Elsa Fornero, abbia parlato in modo chiaro a Omnibus del 2 ottobre: “i governi devono essere politici. Sta alla politica evitare le condizioni per le quali si richiedono i governi tecnici”, ha detto l’ex ministro del Lavoro del governo Monti. Criticando al contempo chi nel governo Meloni su spread e rating cerca complotti oltre al semplice cinismo dei mercati. E invitando l’esecutivo a serietà e buon senso.

Abbiamo provato a chiedere ulteriori approfondimenti alla professoressa Fornero, che però ha, con i modi cortesi che la contraddistinguono, rimandato a più avanti la conversazione, concludendo con una dichiarazione inequivocabile che vale la pena riportare: nelle prossime settimane sulla politica economica “vi saranno ancora problemi di cui parlare”. Molti, a giudicare da un’agenda di retroguardia che non ha bisogno del “giudizio dei mercati” per esser valutata come fortemente contraddittoria e ben al di sotto delle aspettative pre-elettorali di discontinuità promesse da Meloni e i suoi.