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Body positivity, le modelle curvy spariscono dalle passerelle. Ma non è la fine dell’inclusività

Body positivity, le modelle curvy spariscono dalle passerelle. Ma non è la fine dell’inclusività

Perchè leggere questo articolo? Alle ultime sfilate della Milano Fashion Week si è tornati a parlare di body positivity in passerella, ma per sottrazione. Pochissime le taglie sopra la 38. Dove sono finite le modelle curvy e tutta l’inclusione tanto esaltata nelle edizioni precedenti? Secondo il professore ed esperto di moda Mattia Bertocco, si tratta di un’assuefazione comunicativa. Ma una rappresentazione più inclusiva e trasversale della donna è in atto. E va oltre alla rappresentazione in passerella.

La moda passa. E anche quella delle modelle curvy in passerella pare essersi già spenta. Pochissime le taglie sopra la 38 a sfilare alla Milano Fashion Week. Secondo Tagwalk, il motore di ricerca della fashion industry, il numero delle plus-size presenti per la collezione Autunno/Inverno 2024-2025 è crollato del 17%. Ad eccezione dei nomi simbolo del movimento della body positivity, le modelle Paloma Elsesser e Ashley Graham, la presenza curvy sulle passerelle milanesi è sempre più esigua. Sotto le luci della ribalta, invece, il trionfo della magrezza, che sembrerebbe smascherare un’inclusività prevalentemente di facciata.

Per la maggior parte delle maison la presenza di una top model curvy è un’eccezione, all’interno di un cast standardizzato, dominato da un ideale di corpo che secondo i paramentri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è ancora pericolosamente magro. Ma dov’è finita, dunque, tutta l’inclusione tanto esaltata nelle scorse edizioni? True-News ne ha parlato con un esperto del settore, il professor Mattia Bertocco, docente di Storia e documentazione della moda presso l’Università degli Studi di Milano.

Questa edizione della Milano FW ha registrato un forte calo della presenza di modelle curvy sulle passerelle. Come può spiegare questo fatto?

Bisogna fare una premessa importante: nella moda tutto diventa fenomeno. La presenza delle modelle curvy, a un certo punto, è divenuta dominante per un discorso di forte rappresentazione del corpo femminile. Ad oggi, però, si è creata un’assuefazione rispetto a quella tipologia di comunicazione, che ha perso la sua forza attrattiva di novità. Da un punto di vista sociale e culturale sfruttare la questione della body positivity come mero elemento di novità, che di conseguenza a un certo punto stanca, è sicuramente negativo.

E’ dunque un passo indietro nei confronti della body positivity secondo lei?

Non credo che sia un passo indietro nella body positivity. Basta infatti guardare al mondo delle campagne pubblicitarie, quelle che di fatto hanno una maggiore ridondanza e influenza sul consumatore finale, rispetto al ristretto e spesso tecnico bacino d’utenza delle sfilate. Penso, però, che per quanto riguarda il rapporto con la sfilata di moda e la narrativa del fashion show ci sia un momento di pausa. Non è una mossa ipocrita da parte di tutto il settore. Molti brand infatti sono andati avanti non solo con la presenza delle modelle curvy in passerella, ma soprattutto con progetti di campagne pubblicitarie che abbracciano corpi trasversali. Dando rilievo e visibilità a tutte le tipologie di corpi e ai diversi tipi di appartenenza culturale, etnica e sociale. Nel mondo della moda è in atto un tentativo di rappresentazione della donna in tutti i sensi, ancor più trasversale e inclusiva. Penso sia uno step successivo, più potente.

Quindi tutta l’inclusione delle scorse edizioni non era solo di facciata, una moda di passaggio come tutte le altre tendenze?

Bisognerebbe entrare nello specifico di ogni brand. Sicuramente quando alcuni marchi iniziano a fare una determinata politica, altri seguono a ruota perché diventa di moda. In realtà, la sensibilizzazione sul rapporto col corpo c’è da parecchi anni, anche se la strada è ancora lunga sotto molti punti di vista. Rispetto agli anni 2000 infatti il mondo è cambiato. Siamo lontani da quei modelli estremamente distopici dei parametri corporei di sanità e salute. Il calo della presenza delle modelle plus-size in passerella non si deve ad un’ipocrita falsificazione del concetto di inclusione. Né ad una strategia di marketing passeggera. Semplicemente, per evitare un’assuefazione narrativa, è stato necessario capire quale fosse il passo successivo per comunicare in modo innovativo e non didascalico questa body positivity. E ultimamente la moda sta portando avanti un discorso di embracement ed empowerment della figura femminile, che va oltre alla rappresentazione in passerella.

Alcuni brand hanno scelto di vestire una sola modella curvy famosa per dimostrare il proprio sostegno al movimento della body positivity. Ma averne solo una in passerella è abbastanza?

Da un punto di vista sociale e culturale una sola modella curvy sicuramente non basta. D’altro canto, però, averne una può diventare un traino per le generazioni successive. Il limite numerico delle plus-size nelle sfilate è anche determinato da un discorso di produzione della filiera. Nell’industria della moda i lanci sono serializzati e necessitano di determinati tempi. Le collezioni vengono fatte su misure standard. Se un brand desidera avere una figura con taglie differenti, deve pensare a creare quel capo specifico già in fase di produzione. Tenendo conto che ciò comporterà tempistiche più lunghe rispetto ai rapidi ritmi della sfilata. E spesso non conviene.

Limitando la produzione a taglie piccole, l’industria sta perdendo una quota considerevole del mercato di consumatori taglie forti. Perchè dunque il sistema moda difende il “bello uguale a magro” apparentemente contro i suoi interessi commerciali? 

Bisogna fare una distinzione importante: il campionario della sfilata non per forza coincide con quello che il consumatore finale troverà in negozio. La sfilata di moda è un manifesto e in quanto tale ha un’estetica precisa che trascina con sé retaggi socio-culturali legati alla nostra contemporaneità. Per quanto riguarda la parte commerciale, ovvero la vendita, in realtà il mercato è molto vario. Ci sono ancora alcuni brand che perseguono politiche di “taglia 38” e questo è estremamente sbagliato. Personalmente ritengo che bisogna permettere a tutti di accedere al sogno della moda. Limitare la produzione solamente a certe misure implicherebbe escludere una gran fetta di popolazione da quel sogno. Non è tanto un discorso di perdita economica dunque, quanto un disincanto della potenza della moda stessa. Un bel messaggio di inclusività reale potrebbe essere, invece, dedicare delle soluzioni customizzate per persone con fisicità che non coincidono con quelle di campionario.

Secondo gli standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ideale dominante di corpo nel sistema moda è ancora pericolosamente magro. Perché, secondo lei, l’ideale della magrezza regna sovrano nonostante le prove del suo danno sulla salute?

Sullo stato di salute delle modelle ormai c’è una forte quadratura per evitare l’insorgere di malattie legate all’alimentazione. Esiste proprio un protocollo internazionale, firmato da tutte le Camere nazionali della moda e a cui tutte le agenzie devono obbligatoriamente attenersi, che prevede controlli e regolamentazioni per assicurarsi che i corpi in passerella siano sani. L’ideale della magrezza, però, è profondamente radicato nel nostro immaginario collettivo. E la moda non fa altro che seguire l’estetica dominante della società. Se infatti un brand decidesse improvvisamente di realizzare una sfilata al di fuori delle direttive di comprensione sociale, perderebbe il suo pubblico. E pochi marchi se lo possono permettere. La rivoluzione, invece, è in mano al popolo dei consumatori. Sono loro che devono informarsi sulle possibilità di richiesta e di scelta. Se la domanda parte dal basso, dai consumatori, allora la testa, ovvero il sistema moda, può solo accettare il cambiamento.