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Carne coltivata: Governo e Slow Food mettono a stecchetto il futuro

Stop carne coltivata: come il Governo e Slow Food mettono a stecchetto il futuro alimentare e ambientale

Perchè leggere questo articolo? A scienziati e ricercatori non piace lo stop ai cibi sintetici da parte del Governo e di Slow Food.  A True News, Luciano Conti, professore associato di Biologia Applicata presso il Dipartimento CIBIO dell’Università di Trento, svela i benefici della produzione di carne colturale ignorati dall’opinione pubblica.

Soluzione ai problemi etici e ambientali posti dagli allevamenti intensivi, o pericolo per la salute di chi la consuma? Il dibattito intorno alla carne coltivata continua a dividere. Il governo Meloni si mantiene fermo sul divieto di produzione e vendita di cibi sintetici, basandosi sulla difesa delle tradizioni alimentari italiane e sostenendo che le carni coltivate in laboratorio presentino rischi per la salute senza vantaggi ambientali. La normativa sullo stop alla carne colturale, appoggiata anche da Coldiretti, prevede multe da 10 mila a 60 mila euro e chiusura degli stabilimenti per chi viola le disposizioni. Ma il testo sembra non prendere in considerazione le implicazioni ambientali né lo stato di avanzamento della ricerca nel settore.

Anche Slow Food, noto movimento che si batte per la salvaguardia dell’agricoltura e della biodiversità, si è allineato alle posizioni del governo. Ringraziando Meloni per la sua presa di posizione contraria alla carne sintetica (a ulteriore conferma che il movimento fondato da Petrini e le politiche di sinistra sono cose ben distanti tra loro). Slow Food giustifica la sua opposizione sostenendo che la soluzione all’impatto ambientale della produzione di carne non può essere “industriale”.

Il governo, Coldiretti e Slow Food si oppongono, dunque, alla carne coltivata e in generale a tutti i cibi sintetici, sostenendo la mancanza di prove scientifiche che dimostrino i potenziali vantaggi ambientali  di questa produzione e i possibili risvolti negativi sulla salute umana. Tuttavia, le cose non stanno propriamente così. E ci sono studi ed esperienze che lo dimostrano. Tra contraddizioni, dubbi e smentite, una cosa è certa: l’impatto ambientale della produzione di carne tradizionale è un grave problema. Gli allevamenti intensivi consumano un’ingente quantità di suolo, di acqua e sono responsabili del 14,5% delle emissioni di gas serra a livello globale. Urgono soluzioni. La carne coltivata potrebbe essere una risposta concreta. True News ha ascoltato il parere di un esperto del settore, Luciano Conti, professore associato di Biologia Applicata presso il Dipartimento CIBIO dell’Università di Trento. Dal 2020, Conti collabora con il collega Stefano Biressi per lo sviluppo di cellule ottimizzate per i processi produttivi di carne colturale. Alcuni di questi progetti sono finanziati dalla Brunocell, la prima start-up fondata in Italia nel settore della carne coltivata.

Professor Conti, cosa ne pensa della presa di posizione del Governo, appoggiata da Coldiretti, contro la carne colturale?

Questa azione di Governo è stata promossa in seguito alle pressioni da parte di Coldiretti. Si tratta dunque di un’azione politica che nasce da una richiesta di una corporazione. Non ci sono motivazioni vere e proprie che possono portare il Governo a proibire qualcosa che ancora non è sul mercato italiano. Attualmente, infatti, la carne coltivata è in commercio solo a Singapore, dove dal 2021 viene venduta in un ristorante e, solo più di recente, in una macelleria. Il commercio di questo prodotto è stato approvato anche in USA, dove stanno per aprire ristoranti specializzati. Ma si tratta di una produzione irrisoria, non di certo su larga scala. Una commercializzazione di nicchia ed elitaria dovuta agli alti costi. Vietarne il consumo in Italia, in cui il prodotto non è ancora presente sul mercato, mi sembra davvero un controsenso. Anche perché esiste un’agenzia sulla sicurezza alimentare (l’Efsa) che determina la messa in commercio di cibi. La decisione, dunque, dovrebbe spettare all’ente preposto.

Si aspettava la posizione di Slow Food?

Non mi sorprende invece la posizione di Slow Food. La sua mission è quella di tornare alle origini del cibo tradizionale. C’era quindi da aspettarsi che questa associazione si opponesse alla produzione di carne coltivata. D’altronde Slow Food è contraria a molti altri formati alimentari nati negli ultimi anni.

Ma cos’è la carne sintetica, meglio definita come carne coltivata o colturale?

La carne coltivata o carne a base cellulare è la definizione che meglio rende ciò che essa è. Si effettua una piccola biopsia dal muscolo di un animale. Da questa operazione si ottiene un numero ristretto di cellule che viene poi aumentato all’interno di bioreattori. Queste cellule vengono poi fatte maturare nelle componenti della carne, quindi le fibre muscolari e il grasso, fino a dare i prodotti di carne più comunemente consumati.

Dal punto di vista nutrizionale quali sono i benefici e le mancanze rispetto alla carne tradizionale?

La tecnologia della produzione di carne colturale è ancora all’inizio. I prodotti attuali, infatti, sono ibridi. Non sono costituiti interamente da cellule, ma sono integrati con additivi vegetali, a causa degli alti costi di produzione. Questi componenti aggiuntivi sono quelli già utilizzati all’interno degli hamburger vegetali presenti sul mercato. Dunque, niente di nuovo sotto al sole. Dal punto di vista nutrizionale mancano elementi presenti nella carne tradizionale. Banalmente, manca il grasso e il sapore del sangue. Una delle sfide attuali è quella di migliorare il prodotto inserendo questi elementi. Bisogna dire, però, che la carne coltivata è un prodotto molto versatile: si può scegliere quali cellule di grasso mettere e quante aggiungerne. Si potranno avere, ad esempio, carni senza colesterolo, permettendo anche di inserire nutrienti utili a persone in particolari condizioni. In prospettiva questo prodotto può fornire dunque importanti opportunità, creando carni personalizzate per esigenze specifiche.

E da un punto di vista ambientale e industriale invece?

La produzione di carne colturale riduce l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi. Innanzitutto, comporta un risparmio del consumo di suolo e di acqua, rispetto alla carne tradizionale. La carne coltivata può essere pronta in due settimane, mentre un animale richiede mesi di crescita e di nutrizione. L’efficienza produttiva è indubbiamente superiore e non si hanno prodotti di scarto. Inoltre, la produzione di questa carne si basa su energie decarbonizzate, ossia non basate su combustibili fossili. Questo comporta una riduzione dell’emissione di gas serra, di CO2, di metano e di altre sostanze altamente inquinanti per le falde acquifere. Per arrivare a una commercializzazione industriale, invece, ci sono due strade da percorrere. La prima è abbattere i costi delle tecnologie di produzione. La seconda è migliorare la tecnologia stessa. Solo il lavoro in parallelo di queste due componenti permetterà di giungere a una produzione industriale su larga scala. Ma richiederà molto tempo.

Ma la carne coltivata è sicura?

La carne coltivata ha come base le cellule animali, come quella tradizionale. Si ricreano esattamente le stesse componenti. Non è vero che si tratta di cellule impazzite, come sostengono erroneamente molti. Nessuno ha mai sviluppato un tumore da cellule bovine perché il nostro organismo si è evoluto per distruggere le cellule non compatibili con l’individuo stesso. E’ impossibile che avvenga e lo dice la natura stessa, dato che mangiamo carne da millenni. Anzi, posso affermare che la carne colturale è un prodotto più controllato e più sicuro di altri prodotti di carne tradizionale che arrivano in Italia dall’estero. Non si usano antibiotici, che invece vengono utilizzati negli allevamenti intensivi. Sono sì presenti ormoni necessari alla crescita delle cellule, ma allo stesso modo di quelli che abbiamo naturalmente nel corpo. Il problema è quando si esagera nella quantità della dose ormonale, cosa che non avviene nella produzione coltivata. Tra l’altro, il prodotto finale viene lavato e tutte le componenti in eccesso, tra cui ormoni e cellule, vengono eliminate.

Un sondaggio operato da Coldiretti ha evidenziato che l’84% degli italiani ha diffidenze nei confronti della carne colturale. Quale è, secondo lei, il motivo di questa resistenza culturale?

Partirei da un presupposto: un sondaggio dipende anche da come e da chi pone le domande. Per la sua petizione, Coldiretti ha creato un volantino di confronto tra la carne tradizionale e quella colturale. Ma si tratta di una vera e propria falsificazione della realtà. Da una parte viene posta una situazione ideale di allevamento di alpeggio, molto distante dalla maggior parte degli allevamenti intensivi. Dall’altra parte, invece, si trova un’immagine di carne sintetica associata a loghi radioattivi. La percentuale della diffidenza della popolazione è il risultato di questa falsificazione. Per avere risultati più veritieri, bisogna informare senza mistificare la realtà. Ci sono altri sondaggi che evidenziano come il 55% delle persone a livello europeo si dichiara aperta a provare questi prodotti. Interessante è notare che la fetta di popolazione più favorevole è quella degli under 30, prima categoria che potrà usufruire del prodotto quando sarà definitivamente pronto nei prossimi anni. Questi risultati, quindi, risultano in netta contrapposizione rispetto al sondaggio di Coldiretti, senza dubbio più orientato a voler contrastare la produzione di carne coltivata.

Tra le accuse alla carne sintetica, Slow Food sostiene che anche questa produzione comporta un ingente impatto ambientale. Il riferimento è alla quantità di energia necessaria al funzionamento dei bioreattori, in cui le cellule vengono moltiplicate. Cosa ne pensa?

I bioreattori sono cisterne dove vengono fatte crescere le cellule necessarie alla produzione della carne colturale. Ma sono esattamente i corrispettivi dei fermentatori di birra e di yogurt. E sprecano uguale quantità di energia. Allora dovremmo togliere anche questi prodotti “tradizionali”, visto che il loro consumo energetico è pari a quello della carne coltivata? La soluzione è muoversi verso risorse energetiche alternative dal carbone e dal petrolio. Mi riferisco ad esempio all’eolico e al solare, che comportano un impatto ambientale ridotto per tutte le industrie, non solo per quella alimentare.

Un altro punto dell’opposizione alla carne colturale da parte di Slow Food si basa dal presupposto che il cibo abbia valore culturale. La carne in vitro andrebbe a ledere il rapporto stretto tra cibo, luogo e tradizioni. Qual è il suo pensiero a riguardo?

Credo che la società si sia evoluta molto negli ultimi trent’anni. Si sono introdotti cibi sconosciuti prima, senza perdere l’identità nazionale. Perchè dovrebbe farlo la carne coltivata? Inoltre, vorrei sottolineare che la carne colturale non è un obbligo ma un’opzione valida per questioni dietetiche, etiche e ambientali. Togliere le opzioni in un paese democratico mi sembra un approccio dispotico da parte del Governo.

Slow Food ritiene anche che questo tipo di produzione non sia il cibo del futuro, ma solo l’ennesimo giro d’affari delle grandi multinazionali. Come evitare che questo mercato sia preda degli interessi di queste grandi aziende che già controllano il mercato alimentare?

Le multinazionali già controllano il mercato dei cibi. Non sarà la carne coltivata a peggiorare la situazione. Anche l’allevamento intensivo globale è in mano a pochi player, soprattutto in Sud America e negli USA. È già presente, quindi, un monopolio delle carni. La nascita e lo sviluppo di questo settore non è un obbligo. Se prenderà piede non sarà per le pressioni delle multinazionali, ma perchè è un’opzione che verrà data al consumatore per le opportunità nutrizionali, ambientali e culinarie che offre questo prodotto. Un’alternativa per essere svincolati dal privato è finanziare la ricerca a livello istituzionale. Ma in Italia ci sono zero sovvenzioni. Il governo non investe in questo settore, anzi lo blocca, spingendo verso la privatizzazione di questi prodotti. Mi piace ricordare che la carne coltivata non è un’imposizione, ma un’opportunità. Vietarla penso che sia negativo e controproducente per lo sviluppo del nostro Paese.