Home Primo Piano Violenza ostetrica, Mamma di Merda: “C’è una narrazione tossica, il parto non deve essere sacrificio”

Violenza ostetrica, Mamma di Merda: “C’è una narrazione tossica, il parto non deve essere sacrificio”

Violenza ostetrica, Mamma di Merda: “C’è una narrazione tossica, il parto non deve essere sacrificio”

Perché questo articolo ti dovrebbe interessare? Negli scorsi giorni è esplosa la notizia relativa al neonato che ha perso la vita all’ospedale Pertini di Roma dopo che lui e la madre sono stati lasciati soli dal personale sanitario. Molte madri hanno commentato con “Potevo essere io”. Ne abbiamo parlato con Sarah Malnerich di Mamma di Merda.

Mamma di Merda è community online nata nel 2016 da Francesca Fiore e Sarah Malnerich per smontare la retorica della mamma perfetta e lenire i sensi di colpa delle donne con figli. Malnerich ha risposto ad alcune delle nostre domande.

Dopo l’avvenimento al Pertini di Roma, che feedback avete ricevuto dalla vostra community?

Non parliamo di casi di cronaca specifici. Semmai da quelli che attengono ai nostri temi, prendiamo spunto per avviare riflessioni più ampie. Ciò che è successo nella nostra bolla è ciò che succede da sei anni a questa parte quando accade un evento simile. Tutte le volte che abbiamo toccato il tema della gravidanza, del parto e del post parto, le donne iniziavano a segnalarci casi su casi, a inviarci le loro storie con un’urgenza inarrestabile. C’è una forte necessità di raccontare, di raccontarsi. Ci si chiede se questa cosa sia capitata solo a noi.

Quali dinamiche si sviluppano, dalle vostre esperienze, dopo il parto?

Durante e dopo il parto, si è in una condizione di fragilità fisica e psicologica, c’è uno sbilanciamento di potere che incide se chi ne è consapevole non lo tiene presenta e non si approccia con l’attenzione, la responsabilità e anche l’empatia che la situazione richiede. Una paziente si affida. E a maggior ragione si deve prestarle ascolto. Dall’altra parte quando si ha partorito, si è doloranti, stanche, si ha il carico della responsabilità della vita di un altro essere umano – e non uno a caso ma tuo figlio – e una serie di aspettative sociali che rendono la situazione ancora più faticosa.

In che modo questa vicenda è stata raccontata dai media?

Ho visto che nei giorni si è aggiustato il tiro, ma il primo girono per lanciare la notizia il tono dei titolisti era acceso: mamma si addormenta mentre allatta, neonato muore soffocato. Il fatto che sia accaduto in un contesto che doveva essere sicuro e sorvegliato – se non è sicuro nel reparto di ostetricia e maternità, dove lo è? – non è emerso.

Il modo in cui la notizia è stata data è significativo: si mostra la morte del bambino come una forma di disattenzione da parte della mamma. La notizia è un’altra: perché questa donna, che ha accudito il bambino per due notti, era sola e stanca? Non è strano che sia stanca e che avesse bisogno di riposo, ma il modo con cui è stata riportata la notizia denotava stupore verso la sua condizione. La donna in post parto non è trattata come chi ha subito un qualsiasi altro intervento chirurgico. Nemmeno dopo un cesareo. Sembra un doppio standard.

Andando oltre il caso specifico, quali stereotipi colpiscono le madri di solito?

Il tipo di narrazione che si dà delle madri e della maternità è sempre lo stesso: la maternità è sacrificio estremo, è normale che tu non debba avere bisogni psicologici, fisiologici. Diventi madre e smetti di essere un essere umano. C’è l’appiattimento della madre a funzione, una narrazione tossica di stampo patriarcale che prevede che sia facile e automatico esplicarla. Le si dice: “Ti verrà tutto naturale, una madre sa cosa fare, ha delle risorse nascoste, ce la farai, i figli sono sacrificio”.

Cosa comporta tutto ciò?

Trasforma le normali difficoltà e stanchezze che si incontrano in senso di inadeguatezza. Senso di inadeguatezza che soprattutto una primipara ha, ma che tutte le madri hanno. Fare la mamma è una cosa che si impara strada facendo. Ogni donna è portatrice di una maternità unica e ogni bambino ha dei bisogni diversi così come ogni madre. E questi non scompaiono.

Sembra esista un senso di colpa atavico che le donne debbano portare con sé quando diventano madri. Gli stereotipi lo rinforzano: l’idea che le madri lo facciano da secoli e che se ti viene difficile e faticoso sei tu che non vai bene. Un senso di solitudine che talvolta rischia di sfociare nella patologia.

In tante ci hanno scritto parlandoci di donne con PTSD dopo l’evento del parto. Tutto ciò è in conflitto con la narrazione della naturalità del parto e dell’esperienza idilliaca. Se per molte è stato così, per altrettante non lo è stato. E sono dati rilevanti che non possono essere ignorati. Bisogna smettere di fornire una narrazione parziale e di romanticizzare l’esperienza del parto e della maternità. D’altra parte bisogna fornire alle gestanti gli strumenti per arrivare con consapevolezza e restituire il diritto di autodeterminarsi anche in questa esperienza a queste donne, che sono adulte. C’è la tendenza a infantilizzare le donne nel loro dolore e nella loro stanchezza. Il che si ricollega al controllo sul corpo femminile che si vuole esercitare.