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Rai come Bbc? Obiettivo impossibile

Rai come Bbc? Obiettivo impossibile

Che fine ha fatto la riforma della Rai? Nel dimenticatoio, naturalmente. E questo nonostante gli appelli accorati dei partiti che, negli ultimi anni, hanno chiesto una riforma del sistema pubblico televisivo. 
Il controllo dei partiti sulla tv, infatti, è cosa nota e nessun governo è mai riuscito a scardinarlo. E l’episodio che ha coinvolto Fedez, durante il concertone del Primo Maggio, ha confermato ancora di più quanto questo assunto sia vero. Tanto che l’imbarazzo di Viale Mazzini, specie della vice direttrice di Rai 3 Ilaria Capitani, è palpabile e la sua poltrona tremante come mai prima.

Rai, l’ultima riforma è targata Renzi


Ma come funziona la tv pubblica oggi? L’ultima riforma degli assetti Rai è del 2015 e porta la firma dell’ex premier Matteo Renzi. Il consiglio di amministrazione dell’azienda – che approva il piano industriale, editoriale e di spesa – è stato ridotto da 9 (che erano in passato) a 7 membri. Di cui 4 eletti dal Parlamento (due dalla camera e due dal Senato) 2 di nomina strettamente governativa (su proposta del ministero dell’Economia) e uno soltanto espresso dall’assemblea dei dipendenti Rai. Dove però i due “governativi” pesano più degli altri visto che, secondo la legge, il Cda nomina l’amministratore delegato solo dopo aver sentito l’azionista (il Governo). In questo modo – modificata la legge Gasparri in alcune sue parti – l’influenza di Palazzo Chigi sulla Rai è aumentata più di quanto già non fosse presente. 

Lo dimostra il fatto che il nuovo amministratore delegato (il capo “de facto” dell’azienda) ha a disposizione poteri importantissimi: ha mano libera sulle nomine dei dirigenti e sulla firma di ingenti contratti (fino a 10 milioni di euro). Sulla scelta dei candidati alle testate (Tg1, Tg2, Tg3) il cda può respingere i nomi dell’Ad ma servirebbero, per questo, 5 voti contrari su 7. L’amministratore delegato rimane in carica 3 anni e non è considerato un dipendente Rai. 

Le mani dei partiti sulla Rai

Il ruolo del Governo quindi, e del Parlamento in seconda battuta, resta ancora molto forte nell’attuale sistema pubblico televisivo. E la politica, leggi quindi i vari partiti, esercitano un ruolo di indirizzo decisivo nella Rai attuale. A discapito dei continui appelli “all’indipendenza della Rai dai partiti”. 
La legge tanto voluta e acclamata dal Movimento cinque stelle (che urlavano “fuori i partiti dalla Rai”), infatti, è rimasta lettera morta. Sulla base della proposta a prima firma del grillino Roberto Fico, presentata nella scorsa legislatura, il Cda doveva essere ridotto a 5 membri che non dovevano aver ricoperto, nei sette anni precedenti, cariche politiche ed elettive. Dulcis in fundo, per garantire l’indipendenza totale, i componenti del cda dovevano essere sorteggiati dall’Agcom. E soltanto le commissioni parlamentari competenti, a maggioranza di 2/3, avrebbero potuto bocciare un membro in quanto “non idoneo”. 
Così come è rimasta (per ora) nel cassetto anche la riforma, presentata dal senatore M5S Primo De Nicola, che toglie un po’ di potere all’amministratore delegato. Leggendo il disegno di legge è compito del consiglio di amministrazione “eleggere l’amministratore delegato” ma anche “nominare i dirigenti di primo e secondo livello”. Viene ribadito che non possono candidarsi personalità che, negli ultimi 5 anni, abbiano ricoperto incarichi politici a qualunque livello o abbiano questioni aperte con la giustizia (ad esempio se si ha un processo in essere contro la pubblica amministrazione). I curricula, secondo la proposta, vengono inviati all’Agcom che procederà al sorteggio dei nominativi. E anche qui le commissioni parlamentari, con maggioranza di 2/3, possono bocciare un membro se non ritenuto adatto (in tal caso ne verrebbe sorteggiato un altro). 

E il Partito Democratico? Anche lui a fine 2020 aveva detto la sua. L’attuale ministro del lavoro Andrea Orlando aveva proposto di affidare la Rai ad una fondazione, il cui collegio sindacale dovrebbe avere tre membri (di cui due di nomina governativa: uno proposto dal MISE e uno dal Ministero della Economia. Solo uno dal cda della Fondazione). Ente che, nei pensieri del Pd, deve essere garante della “autonomia dal governo del servizio pubblico” e della sua qualità inglobandone anche le azioni. Alla fondazione verrebbe dato l’onore di scegliere il consiglio di amministrazione della Rai, che verrebbe ampliato a 11 membri: 5 nominati dai Presidenti della Camera e del Senato, d’intesa tra loro, 2 dalla Conferenza per i rapporti tra lo stato-Regioni, 2 dalla Conferenza dei rettori delle Università Italiane (CRUI), 1 dall’Accademia dei Lincei e uno dai dipendenti Rai. E come se non bastasse la nuova Fondazione dovrebbe anche “sottoscrivere il contratto di servizio pubblico radiofonico, televisivo e multimediale, delineandone programmi e settori di intervento”. E l’amministratore delegato della Rai, corteggiatissimo dai partiti, come verrebbe scelto? La proposta di legge dice che verrebbe “nominato dal consiglio di amministrazione della Rai” ma “sentito il parere della Fondazione” (per 2/3 espressione governativa). Che é la stessa cosa, seppur con differenti modalità, che di fatto accade anche oggi. Cambiare tutto per poi non cambiare nulla? 
Forse, certo è che nel Pd il tema è sentito e anche nel partito non c’è pieno accordo sul tema. Tanto è vero che la riforma Orlando (all’epoca vicesegretario Pd) é stata depositata il 15 ottobre 2020. A stretto giro di qualche settimana (il 6 novembre 2020) la senatrice del Pd Valeria Fedeli ha presentato una controriforma-Rai per correggere quella di Orlando. Sarebbe a dire? L’impianto di una Fondazione per la gestione della Rai rimane invariato, ma cambia il modo di eleggere il Cda della Rai. Secondo Fedeli i membri del cda Rai devono essere in tutto 10, di cui 2 eletti dal CRUI e uno dai dipendenti Rai. E gli altri 7? 5 vengono indicati dalla commissione Vigilanza Rai (e non dai presidenti di senato e camera, come propone Orlando), e 2 dalla conferenza Stato-Regioni. La rosa di nomi però, tra cui è possibile scegliere questi 7, deriva da un bando pubblico pubblicato in Gazzetta Ufficiale e predisposto dall’Agcom (autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Una differenza (quella tra le due proposte Pd) che pare sottile, ma che invece è di sostanza. Insomma, affrontare il problema creando un ente in più (non ne abbiamo già abbastanza?) e coinvolgendone tanti altri come l’Accademia dei Lincei o la Conferenza dei Rettori è la soluzione messa sul piatto dal Pd. 

Rai, dal Partito Democratico a Liberi e Uguali


E Liberi e Uguali? Non poteva rimanere a guardare. Il partito in cui milita Roberto Speranza, per bocca di Federico Fornaro, si è infatti espresso contro una nuova Fondazione (bollata come inutile complicazione). E ha proposto, nel febbraio 2020, un modello “duale bancario” che separa chiaramente le due funzioni di controllo e gestione. Dove il “Consiglio di Sorveglianza”, con compito di indirizzo e controllo, ha 15 membri (il cui presidente nominato d’intesa dai presidenti di Camera e Senato): tre eletti dalla Camera, tre dal Senato, 2 dal Ministero dell’Economia, 2 dai dipendenti Rai, 2 dalla Siae e 2 dalla CRUI. Organo in carica 6 anni che, a sua volta, nomina il “Consiglio di gestione” (che scade dopo 3 anni) di 3 membri, il cui presidente ha funzioni di consigliere delegato. 

Insomma, tutte proposte che, almeno negli intenti, rincorrono “il modello indipendente della Bbc inglese”. Ma tant’è. Fino ad oggi, sono state soltanto parole al vento.