Home Politics Geopolitics Parliamo di Wagner perché l’Italia in Libia e Tunisia non conta più niente

Parliamo di Wagner perché l’Italia in Libia e Tunisia non conta più niente

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Perché questo articolo potrebbe interessarti? Da anni l’Italia ha ormai completamente perso il controllo della Libia. Agli occhi di Roma, il Paese dal quale salpano migliaia e migliaia di migranti diretti verso le coste italiane è una sorta di buco nero. Nel territorio libico, al contrario, è sempre più forte l’influenza di altri Paesi, tra cui Russia e Turchia.

I flussi migratori dalla Libia nel 2023 non stanno rappresentando la minaccia più diretta alle coste dell’Italia. Al contrario, per la prima volta dopo tanti anni è dalla Tunisia che si sta registrando il più alto numero di partenze. Secondo i dati del Viminale, alla vigilia del completamento del primo trimestre del nuovo anno, dalle coste tunisine sono partite 12.083 persone, mentre da quelle libiche 7.057.

La scusa Wagner mentre l’Italia ha perso Libia e Tunisia

Questo non esclude però che sussista ancora oggi un problema con la Libia. Anche perché il dato precedente risulta in aumento dell’80% rispetto allo stesso periodo del 2022. La rotta riguardante il Paese un tempo dominato da Gheddafi è quindi ancora molto trafficata. Anzi, da alcuni mesi a questa parte è possibile parlare di due e non più una rotta libica. A fianco di quella “tradizionale”, che ha storicamente avuto base lungo le coste della Tripolitania, si è sviluppata adesso quella della Cirenaica. Del territorio cioè controllato dal generale Haftar.

Forse è proprio questo che ha portato nei giorni scorsi membri del governo italiano a parlare di una possibile influenza dell’agenzia russa Wagner nell’aumento degli sbarchi. Haftar da anni è appoggiato dai contractors inviati da Mosca, essendo il generale uno degli uomini di fiducia del Cremlino nella regione. Tuttavia, fonti diplomatiche e fonti libiche tendono ad attribuire l’apertura di una nuova rotta migratoria unicamente alle velleità dei trafficanti locali di fare affari al pari dei gruppi criminali stanziati in Tripolitania.

Del resto, nell’est della Libia l’economia è ferma, di soldi ne girano sempre meno e sono in molti ad aver deciso di gettare in mare i propri pescherecci per fare affari con il macabro traffico di esseri umani. Per di più dal vicino Egitto, lì dove la penuria di grano sta affossando la società e sta mandando sul lastrico migliaia di famiglie, da mesi arrivano sempre più migranti in fuga. Un mix quindi letale per le speranze di porre fine nell’immediato all’aumento di sbarchi.

E non sono pochi poi coloro che credono in una strategia politica di Haftar per farsi accreditare agli occhi dell’Italia e dell’Europa. Il generale vorrebbe cogliere la palla al balzo per fare ciò che hanno già fatto altri Paesi della regione: sfruttare l’emergenza immigrazione per chiedere favori e soldi dai governi dirimpettai.

Gli errori dell’Italia e quei milioni al vento

Ridurre il tema immigrazione alla semplice (e presunta) influenza russa nel Maghreb è riduttivo. Anche perché il vero tema da affrontare è un altro: qual è il reale peso dell’Italia in Libia e in Tunisia? La risposta è semplice: ridotto, se non nullo, rispetto al recente passato. Quando, nel caso libico, invece Roma poteva esercitare pressione, o quanto meno una certa influenza, sul governo locale.

Negli ultimi anni, invece, l’azione dell’Italia in Libia è coincisa con decine di milioni buttati al vento. Milioni messi sul tavolo, di fatto, per rafforzare la Guardia costiera libica. Che però, al netto di ogni giudizio morale, anziché pattugliare le coste per contrastare i flussi dìimmigrazione irregolare sembrerebbe essersi dedicata a tutt’altro.

Calcolatrice alla mano, l’Italia ha investito sulla Guardia costiera libica una somma considerevole che non ha portato a nessun allentamento della pressione migratoria. Tra il 2017 e il 2022, i vari governi italiani hanno stanziato 44,44 milioni di euro, 11 dei quali soltanto nel 2022. Senza dimenticare i molteplici decreti e accordi precedenti.

Il primo risale al 2007, con Giuliano Amato ministro dell’Interno. Roma si impegnò a cedere tre guardacoste classe Bigliani e altrettante vedette classe V5000 alle autorità libiche. Il decreto legge del 31 gennaio del 2008 stanziò inoltre 6,2 milioni di euro per consentire alla guardia di Finanza di partecipare alla missione in Libia.

A seguire, dai rubinetti italiani, sgorgheranno tanti altri milioni. Quasi 5 con un decreto nel dicembre 2009, poco più di 1,2 con un altro decreto nel novembre 2009. Nel 2019 ancora 8 milioni, seguiti da 4,6 milioni stanziati nel dicembre 2012. L’anno successivo ecco 2 milioni e 895 mila euro. E così via, di milione in milione.

Tornando al presente, uno dei primi viaggi all’estero effettuato da Giorgia Meloni è stato a Tripoli. Qui il premier spiegava di aver firmato un memorandum d’intesa con il governo libico per la consegna di cinque vedette finanziate dall’Ue.

Chi controlla la Libia

In una cornice del genere la storia dei migranti rischia perennemente di essere ridotta ad un mero spot elettorale. Non esiste – o almeno non se ne vede traccia – una politica estera dell’Italia capace di creare le condizioni per interrompere il flusso migratorio libico. E questo, come detto, perché l’influenza italiana in Libia è flebile.

Al contrario, sul territorio libico è solida l’influenza di altri Paesi, Russia e Turchia in primis. Eppure, anziché affrontare questo nodo rilevante, c’è chi punta il dito contro una presunta regia del gruppo Wagner, accusato di incrementare intenzionalmente i flussi migratori per punire i governi pro Kiev.

Negli anni Roma si è concentrata in un derby tutto europeo con la Francia per contendersi le zone di influenza nel territorio libico. Con il risultato che sia l’Italia che l’Eliseo hanno lasciato avanzare altri attori internazionali. Ankara, nonostante non poche difficoltà attuali legate al terremoto del 6 febbraio, è la prima alleata del governo di Tripoli. Mosca dal canto suo ha in Haftar il proprio principale riferimento. Più defilate, ma comunque sempre molto importanti, le petromonarchie. Con il Qatar storicamente più vicino a Tripoli e gli Emirati invece più allineati con le autorità dell’est della Libia.

Un mosaico diplomatico quindi in cui il nostro Paese è chiamato adesso al doppio degli sforzi per tornare a difendere i propri interessi. I recenti accordi commerciali ed energetici siglati da Giorgia Meloni a Tripoli, possono rappresentare unicamente il primo passo ma non certo l’unico. E non è detto che tale passo possa portare a benefici immediati.