La firma della “prima fase” del piano in 20 punti per la fine del conflitto a Gaza rappresenta un momento importante, almeno secondo le cancellerie che lo hanno accolto all’unanimità con favore. Dopo oltre due anni dallo shock del 7 ottobre 2023 e dalla lunga e dolorosa offensiva israeliana nella Striscia, la speranza di una “svolta” sembra farsi strada. Tuttavia, chi conosce i dettagli del dossier invita a un “cauto ottimismo”: molti passaggi sono ancora intricati, l’attuazione resta incerta e la situazione sul campo rimane drammatica.
Cosa prevede la prima fase
Il testo, firmato a Sharm el Sheik con la mediazione egiziana (senza precisare ufficialmente chi siano i firmatari), prevede il “cessate il fuoco totale“, condizionato alla ratifica da parte del governo israeliano. Il voto decisivo è atteso per oggi, ed entro 24 ore dovrebbe entrare in vigore la tregua. Questa fase prevede il ritiro parziale e graduale delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza: l’Idf dovrebbe arretrare dietro la cosiddetta “linea gialla” mantenendo però il controllo sul 53% del territorio, in particolare su Gaza City e altre aree sensibili. Rafah, considerata da Israele snodo per il traffico di armi di Hamas, resta fuori da questo primo ridispiegamento.
Rilascio degli ostaggi e scambi di prigionieri
Tema centrale è il rilascio degli ostaggi israeliani ancora in vita – si stima siano 20 su 48 – che dovrebbero essere liberati entro 72 ore dalla ratifica dell’accordo. A ciò si aggiunge l’apertura, sempre entro la stessa finestra temporale, dei negoziati per la liberazione di 250 prigionieri palestinesi condannati all’ergastolo e 1.700 gazawi arrestati dopo il 7 ottobre. Tuttavia, sia la lista dei prigionieri palestinesi sia le modalità concrete di rilascio restano oggetto di tensione e trattative: “le squadre stanno lavorando sull’elenco dei prigionieri palestinesi che dovrebbero essere rilasciati e la questione non è risolta”, ha affermato una fonte israeliana.
Non è infatti chiaro se leader di spicco come Marwan Barghouti e Ahmed Saadat saranno tra i liberati. Secondo alcuni funzionari israeliani, ciò non accadrà; ma fonti coinvolte nei negoziati sostengono il contrario. Nel frattempo, Hamas fa sapere di aver “informato i mediatori delle difficoltà legate alla consegna dei corpi dei defunti” tra gli ostaggi deceduti, alimentando ulteriori interrogativi sulla reale possibilità di recupero.
L’arrivo degli aiuti umanitari
Altro pilastro dell’intesa è l’apertura di 5 valichi di frontiera per consentire l’arrivo di aiuti umanitari alla popolazione gazawa. Nelle prime fasi sarebbero almeno 400 i camion autorizzati ad attraversare i confini ogni giorno. “Abbiamo abbastanza cibo per fornire cibo all’intera popolazione per i prossimi tre mesi”, ha annunciato su X il direttore dell’Unrwa Philippe Lazzarini, che ha definito l’accordo “un enorme sollievo”. Eppure, nella Striscia la crisi resta drammatica.
Le reazioni e il clima all’indomani della firma
La comunità internazionale – da Usa a Qatar, Turchia ed Egitto – sostiene il piano Trump, salutandolo come “svolta”, ma la prudenza resta d’obbligo. Trump è atteso nelle prossime ore nella regione, pronto a capitalizzare diplomaticamente su questa intesa che alcuni osservatori bollano come mera “operazione di marketing”. “Si propone una tregua unilaterale dove una parte prende tutto, impone la propria immunità sulla devastazione causata e si candida a coprire i costi della guerra, vendendo contratti di ricostruzione e strumenti di sorveglianza come se fossero miracoli di pace”, sottolineano voci critiche.
I nodi che restano aperti
La cosiddetta “fase due” del piano dovrà affrontare temi ancor più delicati: l’ulteriore ritiro dell’Idf dietro la “linea rossa” (più esterna della gialla), la creazione di una zona cuscinetto tra Gaza e Israele e, soprattutto, la futura amministrazione della Striscia. Il piano prevede un’amministrazione internazionale a guida Usa, con la partecipazione di paesi arabi e l’ex premier britannico Tony Blair. Ma Hamas respinge l’ipotesi di governi occidentali; sarebbe invece possibilista su una soluzione “tecnica” e sotto l’egida dell’Autorità nazionale palestinese e la garanzia di paesi arabi e musulmani.
Uno degli ostacoli principali riguarda il disarmo di Hamas. “Con i mediatori si parla di diverse opzioni per il cessate il fuoco, ma non sulla base della consegna delle armi”, ha dichiarato Hazem Qassem, portavoce del gruppo. E ha aggiunto: “L’arma della resistenza è legittima per difendere il nostro popolo e garantire l’indipendenza della decisione palestinese”.
Le critiche sul piano Trump
Dietro l’apparenza di “storico evento”, giuristi ed esperti Onu leggono nel piano varie violazioni del diritto internazionale. “Il piano di Trump viola principi fondamentali di legge internazionale per 15 ragioni principali”, accusano, puntando l’indice soprattutto sulla condizionalità del diritto all’autodeterminazione palestinese e sulle modalità che rischiano di sostituire l’occupazione con un nuovo controllo straniero mascherato. Una struttura che, secondo questi osservatori, rischia di rafforzare ancora di più la vulnerabilità palestinese.
Un futuro ancora incerto
Al netto delle dichiarazioni solenni, la realtà impone una riflessione: la pace celebrata oggi dai media e dai politici potrebbe essere una tregua temporanea, rapidamente superata dagli eventi. I palestinesi hanno urgenza di “non morire”, i leader politici internazionali cercano gloria e consenso, i dettagli reali del percorso restano tutti da verificare.
Certo è che nei mesi recenti la causa palestinese ha guadagnato attenzione e simpatia globale come mai era accaduto negli ultimi decenni: la lotta e la resilienza di chi sopravvive a Gaza hanno ispirato una mobilitazione senza precedenti nel mondo, divenendo simbolo della resistenza alle ingiustizie storiche.
Il cammino verso la pace vera, però, non può prescindere da soluzioni condivise e sostenibili che rispettino davvero il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Al momento, la storia del Mediorente la scriveranno ancora coloro che vivono sulla terra bagnata dal conflitto, più che leader lontani nella stanza delle trattative.