Home Politics Draghi non stare sereno: dal Quirinale alla crisi di governo il passo è breve

Draghi non stare sereno: dal Quirinale alla crisi di governo il passo è breve

Draghi non stare sereno: dal Quirinale alla crisi di governo il passo è breve

Habemus presidente, è adesso che ne sarà del governo? Per l’esecutivo di Mario Draghi si aprono due scenari possibili: una continuità con differenti sfumature di rimpasto o la rottura definitiva col ribaltone che riporta il paese alle urne per un’elezione anticipata.

Nel migliore dei casi, il conto alla rovescia segna un anno e un mese: la durata media di un governo nella storia della Repubblica Italiana. Il vacillamento del governo trova conferma nella storia degli esecutivi: anche se è difficile che sia il caso di Sergio Mattarella, vista come è andata, non è raro che l’insediamento del nuovo inquilino al Quirinale azioni il timer per il siluramento del Presidente del Consiglio. Da De Gasperi a Draghi, la storia repubblicana ha conosciuto 67 governi e 30 differenti premier, per una durata media di un anno e un mese: 404 giorni – che diventano 374,30 nella pienezza dei poteri, se si tiene conto della media di 34 giorni di crisi di governo. Ma quando in mezzo c’è l’insediamento sul Colle più alto, non è raro che le tempistiche si accorcino: ridimensionamento, rimpasto o caduta del governo sono dietro l’angolo.

Dimissioni del premier: una prassi di cortesia, ma non solo

Quante volte l’elezione del nuovo Capo dello Stato ha comportato la caduta di un governo? Formalmente sempre, con le “dimissioni di cortesia”. Una prassi non codificata da alcuna legge o regolamento e totalmente formale anche se consolidata nella storia repubblicana. All’insediamento del nuovo Presidente della Repubblica, è usanza che il premier salga al Quirinale per rassegnare le proprie dimissioni, che vengono sempre puntualmente rifiutate.

Nella storia però non sono mancate le occasioni in cui l’elezione del vertice dello stato è passata dalla cortesia al veleno. Rimpasti di governo, abbandoni di maggioranza e frizioni col colle: non sono pochi gli esecutivi che, a causa delle turbolenze delle Quirinarie, sono caduti poco dopo. E il caso del ministro Giancarlo Giorgetti esploso nella giornata di sabato 29 gennaio sembra non fare eccezione. Gli sviluppi sono tutti là da vedere.

Il primo De Gasperi terminò con la proclamazione della Repubblica

Il fatto stesso di diventare una Repubblica, anche se ancora senza un presidente, ha causato le dimissioni del governo: il primo (di otto) di Alcide De Gasperi e l’ultimo del Regno d’Italia. Entrato in carica il 10 dicembre 1945, rimase in carica meno di sei mesi: fino al referendum del 2 giugno 1946. Vinse la Repubblica e l’assemblea Costituente elesse Enrico De Nicola Capo Provvisorio dello stato nella transizione; a lui il governo De Gasperi I presentò le dimissioni. I rapporti tra i due furono tutt’altro che cordiali. De Nicola avvallò i brevissimi De Gasperi II, III e IV che alla fine riuscirono a portare a termine la transizione con l’entrata in vigore della Costituzione, il 1º gennaio 1948, che rese ufficialmente De Nicola Presidente della Repubblica. Il non più provvisorio Capo dello Stato si aspettava una conferma del proprio ruolo, che invece terminò dopo le elezioni di aprile 1948. Il 12 maggio Luigi Einaudi pose fine al mandato di De Nicola, durato meno di sei mesi. Due settimane dopo il De Gasperi IV si dimetteva, per lasciare spazio al V che inaugurava la formula dei partiti del CLN al governo, per far spazio al centrismo.

Scelba “spazzato via” dopo la nomina del presidente Gronchi

Il 29 aprile 1955 Giovanni Gronchi viene eletto al quarto scrutinio. Cinquantadue giorni dopo, il 22 giugno, in seguito ai contrasti interni alla Democrazia Cristiana e al rifiuto del Partito Repubblicano Italiano di tornare nel governo, il presidente del Consiglio Mario Scelba rassegna le dimissioni del governo che si era insediato un anno e mezzo prima. Il Ministro dell’Interno, firmatario della legge che porta il suo nome e che per anni è stato il riferimento normativo per punire il crimine di apologia di fascismo, non tornerà mai più al governo.

I convulsi anni di Segni, Fanfani, Saragat e Moro

L’erede di Scelba è il compagno di partito Antonio Segni, che qualche tempo dopo è destinato a succedere a Gronchi al Quirinale. La sua elezione, il 6 maggio 1962, avviene in un periodo di cambio di orientamento politico della Dc che Segni prova a ostacolare: l’apertura alle “convergenze parallele” coi socialisti. Nell’estate del 1960 i fatti di Genova – le violente manifestazioni contro la possibilità dell’appoggio esterno del Movimento Sociale Italiano – portarono alla caduta dopo poche settimane del governo di Tambroni, rimpiazzato da due governi di Amintore Fanfani, sorretti dall’appoggio esterno del Psi. Il 22 giugno 1963 – neanche un anno dopo la salita al Colle di Segni – il crollo dei consensi elettorali per la Dc portò alle dimissioni di Fanfani, che sarebbe tornato al governo solo negli anni Ottanta.

Fanfani fu logorato dalle tensioni con il Capo dello Stato, che a sua volta accusa il colpo, ma a livello fisico: dopo solo due anni di mandato, il 7 agosto 1964, durante un concitato colloquio con Giuseppe Saragat e il premier Aldo Moro, fu colpito da trombosi cerebrale. Al suo posto viene eletto al Colle proprio Saragat, il 29 dicembre 1964. Moro rimane al suo posto per cinque anni, ma dovendo formare tre esecutivi diversi: dopo l’insediamento di Saragat riesce a rimanere al governo per poco meno di un anno.

Il fattore Quirinale continua a minare la longevità della Presidenza del Consiglio. All’elezione di Leone il 29 dicembre 1971 fa seguito la caduta dell’unico governo guidato da Emilio Colombo, dopo solo due settimane. L’elezione del nuovo Capo dello Stato fa uscire il Partito Repubblicano dal governo e aprire la crisi il 15 gennaio.

Va meglio, ma solo di poco, ad Andreotti dopo la scelta di Pertini, il 9 luglio 1978: il suo quarto governo cade il 31 gennaio dell’anno successivo, dopo 195 giorni. Nel 1986 Craxi è costretto a formare un nuovo esecutivo a neanche un anno dall’insediamento di Francesco Cossiga.

Dimissioni del primo ministro: una tradizione anche per la Seconda Repubblica

Il 25 maggio 1992, due giorni dopo la strage di Capaci, Oscar Luigi Scalfaro diventa il primo presidente della cosiddetta Seconda Repubblica. Sale al Colle in una contingenza resa ancora più particolare dal fatto che la sua elezione avviene senza governo: si è inaugurata la legislatura da appena un mese, dopo le elezioni di aprile. Stesso scenario che avverrà con l’elezione di Napolitano, nel 2006, pochi giorni dopo l’elezione che vide prevalere Prodi su Berlusconi per una manciata di voti; e la sua rielezione nel 2013, immediatamente dopo le politiche che videro l’affermazione del Movimento 5 Stelle e la “non vittoria” del Pd di Bersani.

Mentre a conferma del trend contribuiscono Carlo Azeglio Ciampi, eletto il 18 maggio 1999 a cui fa seguito la caduta del primo governo D’Alema esattamente sei mesi dopo.

Sette anni fa, Mattarella è stato eletto esattamente a metà del mandato di Matteo Renzi che vide la fine il 12 dicembre 2016, quasi due anni dopo. Rappresenta un unicum: nella storia i governi non sopravvivono all’elezione di un presidente della Repubblica più di un anno. Draghi riuscirà a resistere all’effetto Quirinale?