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Cina, l’anno della tigre: il soft power di un paese in trasformazione

Xi e il soft power in Cina

L’anno della tigre per la Repubblica Popolare Cinese sarà decisivo per il futuro del paese e dell’attuale leadership. La lunga marcia di avvicinamento al Congresso del Partito Comunista Cinese sarà condizionata dalle sfide interne: la stagnazione economica ed energetica, il superamento della pandemia e le questioni sociali ad essa legate. Inoltre, l’immagine positiva della Cina, quell’idea di soft power voluto da Xi Jinping, è messa a dura prova a causa dell’invasione russa in Ucraina e dell’instabilità regionale nel Mar Cinese Meridionale, insieme al tema del rispetto dei diritti umani sollevato durante il boicottaggio diplomatico delle Olimpiadi Invernali di Pechino.

In vista del Congresso che ogni cinque anni “elegge” il Politburo, il Comitato Permanente e il Segretario Generale, scandendo la vita politica del paese, la parola d’ordine è “stabilità”. Interna, soprattutto. Con ogni probabilità Xi Jinping sarà riconfermato per il terzo mandato consecutivo (2022-2027) e con esso il suo progetto di “grande rigenerazione della nazione cinese”. Una rinascita patriottica che promuove l’immagine di una Cina “affidabile, amabile e rispettabile”, “aperta e sicura, ma anche umile e modesta”, che allarghi la propria cerchia di amici e che si riappropri del potere discorsivo per costruire una «comunità di futuro condiviso per tutta l’umanità”. Secondo Nadège Rolland, sinologa di fama mondiale, rappresenta un “mondo aperto, inclusivo, pulito che goda di una pace duratura, universale sicurezza e prosperità comune”, in cui la Cina esercita un ruolo centrale in quanto leader benevolo di un ordine regionale sino-centrico.

Una minaccia all’immagine del Dragone

Per dimostrare che il modello cinese è in grado di adattarsi ai cambiamenti del ventunesimo secolo, il Partito-Stato influenza con ogni mezzo – diplomatico, economico o culturale – la costruzione dell’immagine della Cina all’estero. Un soft power messo in atto anche durante la pandemia con la massiccia distribuzione di vaccini, ma che ha avuto come più recente palcoscenico le Olimpiadi Invernali tenutesi a Pechino.

L’atmosfera dei Giochi appena terminati verrà ricordata come desolante e distopica: la separazione delle sedi delle gare dal resto del paese, le rigide restrizioni per il contenimento della pandemia, le tensioni geopolitiche che hanno accentuato il senso di isolamento malgrado la manifestazione sportiva. L’efficienza della bolla non è bastata a nascondere l’inevitabile boicottaggio diplomatico di Stati Uniti, Nuova Zelanda, Australia, Canada e Regno Unito. Negli anni si è allargata la schiera di paesi che chiedono conto alla Cina della sua posizione assertiva verso Taiwan, della legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong e della repressione uigura nello Xinjiang, aumentandone la percezione quale rivale sistemico.

Alla luce del successo mediatico e sportivo delle Olimpiadi Invernali, è lecito chiedersi se la Cina sia riuscita nell’impresa di rafforzare il proprio soft power. Nonostante il boicottaggio occidentale, ben 25 leader mondiali hanno partecipato alla cerimonia di apertura (tra cui il primo ministro del Pakistan, i presidenti di Singapore e Argentina, e il segretario generale dell’ONU), e sono stati firmati ulteriori accordi per allargare le infrastrutture della Belt and Road Initiative in Argentina.

Xi e Putin, vicini lontani

Inoltre, il 4 febbraio scorso, Xi Jinping e Vladimir Putin hanno sottoscritto un documento comune che ridiscute l’ordine liberale e assicura il sostegno di Pechino riguardo le preoccupazioni di Mosca nei confronti di un allargamento della NATO, in cambio di un appoggio russo  sulla questione di Taiwan e del Mar Cinese Meridionale. La visita del presidente russo è stata un’occasione per consolidare un’alleanza tra due potenze che condividono un confine di 4000 chilometri circa, che esercitano entrambe influenza sull’Asia Centrale (luogo di sviluppo fondamentale della BRI) e che hanno bisogno reciprocamente di una partnership energetica, militare e tecnologica per svilupparsi in chiave anti-americana. Prova ne è il fatto dell’interoperabilità dei due sistemi satellitari e del progetto di una nuova stazione spaziale lunare congiunta.

La comunione di interessi tra Federazione Russa e RPC presenta degli elementi di infrazione latenti. In particolare sui due incompatibili dossier tra Ucraina e Taiwan. All’inizio della crisi ucraina, la Cina ha mantenuto la sua posizione quale “potenza alternativa e responsabile” chiedendo l’implementazione degli accordi di Minsk. Come ha dichiarato il ministro degli esteri Wang Yi alla Conferenza di Monaco “la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale di tutti i paesi devono essere rispettate e salvaguardate”. Una soluzione diplomatica, quindi, in risposta all’aggressività delle sanzioni proposte dal blocco occidentale. Una motivazione alquanto simile dalla posizione cinese nei confronti dell’annessione della Crimea nel 2014: contrarietà all’interventismo russo ma nessuna ritorsione. Questa apparente incompatibilità dimostra una posizione di dialogo coerente, definita una camminata sulla fune. La risoluzione di una guerra attraverso i negoziati senza l’utilizzo di coercizioni economiche ergerebbe la Cina a potenza mediatrice al di sopra dell’inadeguatezza europea e americana nell’attuare un concreto peace-making. Ma tenere insieme l’alleanza con la Russia e i principi cinesi di politica estera (non ingerenza nelle questioni domestiche e preservare la sovranità e l’integrità territoriale degli stati) è quasi impossibile.

Taiwan non è il Donbass

A differenza delle repubbliche di Donetsk e Luhansk, Taiwan non è un’entità politica riconosciuta come stato sovrano. Essa è rimasta una provincia cinese secondo il PCC, e un’eventuale invasione dell’isola significherebbe ammettere il fallimento della politica estera cinese che si basa anche sul rifiuto dell’utilizzo della forza quando è l’arsenale normativo, ben più di quello militare, che porterebbe a una sua finale assimilazione. Per riassumere: Taipei non sarà mai il “secondo fronte”.

In conclusione, la politica estera cinese e il suo potere d’influenza sono capaci di adattarsi ai mutamenti della contemporaneità perché privi delle sovrastrutture ideologiche e dei vincoli dei sistemi d’alleanze tipici dell’Occidente. La leadership cinese dovrà riuscire a mantenere la sua immagine di potenza benevola, presentandosi al mondo come garante della stabilità tra i popoli, per consentire a Xi Jinping un altro duraturo quinquennio.