Il clima in aula è stato carico di tensione e commozione quando la Corte d’Appello di Roma ha confermato la condanna nei confronti del boss dei Casalesi, Francesco Bidognetti, e dell’avvocato Michele Santonastaso, per le minacce aggravate dal metodo mafioso rivolte nel 2008 allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione. La sentenza – un anno e sei mesi al capoclan, un anno e due mesi all’avvocato – ribadisce la gravità di quelle intimidazioni lanciate durante il processo ‘Spartacus’, uno dei più grandi maxiprocessi alla camorra napoletana.
Non sono bastati i diciassette anni trascorsi per mutare il peso di quelle parole. Alla lettura del verdetto, Saviano ha abbracciato in lacrime il suo legale davanti a un’aula ferma, attraversata da un applauso spontaneo. Poi, lo scrittore ha trovato solo una frase, amara e definitiva: “Mi hanno rubato la vita”. Uno sfogo che fotografa, senza retorica, la dimensione privata e pubblica dello scrittore di “Gomorra”, costretto da vent’anni a vivere sotto scorta per le minacce della camorra.
I fatti contestati ai due imputati si radicano nel cuore della storia criminale italiana recente. È il 13 marzo 2008 quando, durante le conclusioni della difesa nell’appello del processo ‘Spartacus’ a Napoli – oltre 115 imputati della camorra seduti al banco degli accusati – l’avvocato Santonastaso, legale di Bidognetti, produce e legge in aula un documento di ricusazione dei giudici. Il testo motiva la ricusazione con un presunto “condizionamento” esercitato mediaticamente proprio da Saviano, attraverso il suo libro Gomorra, e dalla giornalista Capacchione, che secondo il testo avrebbe “favorito la procura” con i suoi articoli sul Mattino.
“La condotta ascritta ai due imputati è inserita nel contesto di criminalità organizzata proprio della cosca dei Casalesi di cui Bidognetti era capo. La minaccia e l’intimidazione rivolta platealmente contro i due giornalisti fu espressione di una precisa strategia ideata dallo stesso capomafia, il cui interesse era quello di agevolare ed alimentare il potere di controllo sul territorio esercitato dal clan e di rafforzarne il potere”, avevano scritto i giudici della Quarta Sezione penale del Tribunale capitolino nelle motivazioni del primo grado del 2021.
Il processo, che vedeva costituiti come parte civile la Federazione Nazionale della Stampa e l’Ordine dei giornalisti della Campania, è diventato negli anni un simbolo delle dinamiche tra criminalità organizzata, informazione e istituzioni. “Nel procedimento sono parte civile la Federazione Nazionale della Stampa rappresentata dall’avv. Giulio Vasaturo, e l’Ordine dei giornalisti della Campania”, annota la sentenza, segnalando l’impatto nazionale della vicenda.
Secondo i giudici, le parole proferite in aula non erano semplice diritto di difesa, ma minacce gravi, parte di una più vasta strategia mafiosa volta a intimidire coloro che raccontano e contrastano le mafie. La politica e l’opinione pubblica all’epoca, e ancora oggi, hanno letto in quelle frasi la determinazione di una parte della criminalità organizzata a mantenere il proprio potere di intimidazione anche nei luoghi della giustizia.
L’immagine che chiude questa giornata giudiziaria è quella di Roberto Saviano in lacrime, sostenuto dal suo legale Antonio Nobile e dagli sguardi di solidarietà in aula. “È stato un gesto che ha condensato tutta la sofferenza di una vita spesa tra paura, denuncia e resistenza – raccontano testimoni presenti –. Dopo la lettura della sentenza, l’applauso scattato nell’aula è stato sentito, silenzioso, carico di tensione non ancora risolta”.
L’autore di Gomorra sotto scorta da vent’anni, ricorda il Corriere della Sera, “ha fissato il capoclan in aula, poi non ha retto all’emozione”.