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“Le tre età della fiamma”. La destra in Italia: intervista a Marco Tarchi

“Le tre età della fiamma”. La destra in Italia: intervista a Marco Tarchi

Perché questo articolo potrebbe interessarti? La destra italiana ha attraversato varie stagioni politiche. Il governo Meloni coincide con l’ultima tappa di un percorso lunghissimo. Ricostruito dal politologo Marco Tarchi nel suo ultimo libro “Le tre età della fiamma”.

In Italia, dal dopoguerra ad oggi, la destra ha compiuto un percorso politico lungo e non sempre lineare. Ha attraversato varie stagioni, passando alla sostanziale emarginazione del Movimento sociale italiano alla subalternità di Alleanza nazionale con Silvio Berlusconi. Fino ad arrivare alla fase attuale, con l’esperienza di guida di governo di Fratelli d’Italia. E con Giorgia Meloni che sembrerebbe voler proporre all’elettorato un partito nazional-conservatore e afascista.

Nel suo ultimo libro “Le tre età della fiamma“, in uscita per Solferino, il politologo Marco Tarchi ha ricostruito questo percorso insieme ad Antonio Carioti, analizzando rotture e continuità storiche, e accendendo i riflettori sul rapporto tra destra, sovranismo e populismo.

Professor Tarchi, nel suo libro ripercorre le “tre età della fiamma”, in riferimento all’evoluzione del partito attualmente guidato da Giorgia Meloni. Come sta oggi Fratelli d’Italia? La sua fiamma arde ancora oppure è un qualcosa che appartiene ormai definitivamente al passato?

Se si riferisce all’eredità neofascista, direi che – quantomeno ai vertici, ma anche in una parte considerevole dei quadri intermedi – si può ritenerla superata. Meloni è restìa alle abiure, forse anche per convinzioni personali ma certamente per considerazioni di opportunità, ovvero non perdere quel che resta dell’elettorato del Msi e in parte di An. Per questo continua a richiamarsi alla “lunga storia” dei partiti che hanno avuto la fiamma tricolore nel simbolo. Ma la sua è la fase di quello che è stato giustamente definito afascismo, cioè sostanziale estraneità, indifferenza, rispetto all’esperienza storica del fascismo e alle basi ideologiche che l’avevano ispirata. Fratelli d’Italia è ormai un partito conservatore, in cui la leader vorrebbe innestare più robuste dosi di liberalismo.

Come valuta, fin qui, la leadership di Giorgia Meloni sia all’interno di FdI che nel ruolo di premier?

Nel partito il suo ruolo è blindato da uno statuto che definisco di “centralismo plebiscitario”: il presidente comanda, sceglie persone di fiducia negli organi direttivi, controlla le strutture locali in cui da tempo non si tengono congressi (ora ha promesso di indirli, ma si vedrà come evolveranno le cose). E i successi ottenuti circondano Meloni di un’aura di insindacabilità, che solo consistenti rovesci elettorali potrebbero mettere in discussione. Come presidente del Consiglio, sono evidenti le sue tendenze a un’estrema personalizzazione delle decisioni e dell’immagine: il suo sistematico uso dell’“io” al posto del “noi” ne è un indizio inequivocabile. A questo si aggiunge il mantenimento di uno stile a volte informale e sopra le righe, più adatto ai social media che ai luoghi istituzionali, per far vedere che lei non è “un politico come gli altri” Fin qui è un approccio che ha funzionato e ha tenuto alto il suo capitale di simpatia, ma esagerare – come ha fatto in Parlamento pochi giorni fa – può essere pericoloso. Come il caso-Renzi ha dimostrato, l’arroganza alla lunga non paga.

A suo avviso c’è il rischio che FdI, nel post europee, possa seguire le orme della Lega, passando da un periodo dorato ad un progressivo ridimensionamento elettorale?

Al momento, non ne vedo le premesse. Un Pd che ha alla testa Schlein ed esprime un’immagine che la grande maggioranza degli attuali elettori del centrodestra vede come il fumo negli occhi, è per FdI un’ottima assicurazione. Il rischio, imprevisto dai più e anche da me, è che Forza Italia possa godere di un riflusso moderato, causato anche dal naufragio del progetto centrista di Calenda e Renzi, ed acquisire un ulteriore potere di attrazione fra gli orfani di Berlusconi. Ma è uno scenario per ora meramente ipotetico.

A proposito di Europa, c’è il rischio che la frammentazione dei partiti al governo in Italia possa generare un effetto boomerang? FdI è nel gruppo ECR, la Lega in Identità e Democrazia, Forza Italia addirittura nei Popolari…

Questo è effettivamente uno scoglio. Che potrebbe aumentare il tasso di competitività interno alla coalizione. Ma né la Lega né Forza Italia hanno soluzioni di ricambio all’attuale alleanza e alla sua configurazione con Meloni al comando. La ricandidatura di von der Leyen alla guida dell’Ue potrebbe però creare lacerazioni foriere di strascichi poco piacevoli.

Tornando nei confini nazionali, come valuta l’agenda di FdI per quanto concerne la politica interna?

Molto meno incisiva di quanto era stato promesso agli elettori, ma c’era da aspettarselo. Arroccarsi sulla proposta del premierato e concentrare il proprio discorso pubblico su quel progetto è un modo per distogliere l’attenzione su alcune mosse incerte, come la tassa sugli extraprofitti bancari di fatto rimangiata o la gestione dei flussi migratori, con la scomparsa del famoso “blocco navale”. Quanto alla politica sociale, che avrebbe dovuto essere particolarmente cara a FdI, si è limitata fin qui all’espediente dei bonus, che ha un intrinseco carattere di precarietà, giustificato dalla carenza di risorse economiche causata dai precedenti esecutivi. Le prospettive di riforme radicali latitano.

E per quanto riguarda la politica estera? Molti ritengono che questo sia uno dei talloni d’Achille – se non il principale – del partito di Meloni…

È, al contempo, un punto di forza e di debolezza. Garantisce a Meloni un occhio di riguardo da parte degli ambienti che contano nel campo occidentale, Stati Uniti e Unione europea in testa, e le allontana il temutissimo rischio di emarginazione o delegittimazione dovuto alla storia da cui FdI proviene. Ma, con l’assoluto appiattimento sulla strategia di Usa e Nato, rischia di alienarle una parte dell’elettorato potenziale. Finora, però, il primo aspetto ha prevalso sul secondo.

Come valuta sin qui la classe dirigente di FdI? Si è dimostrata all’altezza delle precedenti che ha saputo formare il partito o c’è un gap tra il presente e il passato?

Non magnificherei le doti della classe dirigente, di vertice e intermedia, di Alleanza nazionale, che ha potuto godere di circostanze favorevoli che l’hanno proiettata dall’emarginazione a posizioni di governo centrale e locale, ma una volta entrata nella “stanza dei bottoni” non sempre ha saputo sfruttarle sino in fondo, radicandosi nel tessuto sociale e civile del Paese. Quello dei dirigenti di Fratelli d’Italia è un work in progress, che è difficile giudicare. Ci sono stati insufficienze palesi – e non mi riferisco a casi di dilettantismo e improvvisazione di singoli, ma ad insuccessi nella gestione di istituzioni, come ad esempio a Cagliari – e discreti successi – vedi la riconferma di Marsilio in Abruzzo. Solo il futuro darà una risposta a questo interrogativo.