Home Economy Lo yen cola a picco: la crisi del Giappone è la fine di un modello per l’Italia?

Lo yen cola a picco: la crisi del Giappone è la fine di un modello per l’Italia?

Da Sanchez a Panetta, chi ha risposto bene all'inflazione

Perché questo articolo potrebbe interessarti? Quella del Giappone è una delle economie asiatiche più colpite dalla recente ondata di inflazione. Il valore dello yen è in picchiata. Sul Forex perde quasi il 40% da inizio 2021 contro il dollaro; in una tendenza che non sembra fermarsi. A settembre l’inflazione ha toccato la soglia del 3%, con prezzi di beni e materie prime in aumento. Proprio come l’euro, la moneta giapponese è colpita dall’apprezzamento del dollaro. Ma le situazioni di Italia e Giappone sono ben diverse.

L’economia del Giappone è in affanno ma non dovrebbero esserci ricadute sostanziali sull’Italia. Anche perché i valori commerciali reciproci rappresentano quote marginali delle rispettive bilance. Quote ben settorializzate e per lo più di alto valore aggiunto. Stando ai dati OEC (The Observatory of Economic Complexity), nel 2020, l’Italia ha esportato 8,35 miliardi di dollari di merci in Giappone. I principali prodotti sono stati tabacco lavorato (1,43 miliardi), automobili (681 milioni) e bauli e custodie (518 milioni). Al contrario, sempre nello stesso anno, il Giappone ha esportato in Italia 4,01 miliardi di dollari. In primis auto (735 milioni), medicamenti confezionati (250 milioni) e motociclette (192 milioni).

Giappone in affanno

A settembre il tasso di inflazione al consumo core del Giappone è schizzato alle stelle, al 3%, toccando il nuovo massimo degli ultimi otto anni. E superando l’obiettivo del 2% fissato dalla Bank of Japan (BOJ) per il sesto mese consecutivo. Allo stesso tempo il crollo dello yen, ormai ai minimi da 32 anni, continua a far impennare i costi di importazione.

Da questo punto di vista, come detto, l’Italia è al sicuro. Anche se, va sottolineato, negli ultimi 25 anni le esportazioni dell’Italia verso il Giappone sono aumentate a un tasso annualizzato dell’1,94%, passando dai poco più di 5 miliardi di dollari del 1995 agli 8,35 del 2020. Dall’altro lato, e nello stesso lasso temporale, l’export nipponico diretto a Roma è diminuito ad un tasso annualizzato dello 0,31% (dai 4,3 miliardi del 1995 ai 4 del 2020).

La BOJ continuerà a “condurre un allentamento monetario” per aprire la strada ad aumenti dei prezzi accompagnati da aumenti salariali, ha spiegato il governatore della banca centrale giapponese Haruhiko Kuroda. Lo stesso Kuroda, lo scorso dicembre, aveva affermato che non c’era “alcuna possibilità che i prezzi al consumo” aumentassero “del 2% o più come negli Stati Uniti e in Europa”. Risultato attuale: a settembre l’indice principale dei prezzi al consumo del Paese, che esclude i prodotti alimentari freschi, è aumentato del 3% su base annua. Poco importa, perché la BOJ ha mantenuto una politica monetaria estremamente espansiva, preoccupata che l’attuale aumento dei prezzi non persista.

La fine di un modello per l’Italia?

Per anni il modello economico giapponese è stato preso come esempio (seppur spesso inimitabile). Al netto delle enormi diversità sistemiche, molte delle ricette adottate da Tokyo hanno riscontrato approvazioni e simpatie europee. Nel 2019, ad esempio, il governo giapponese è ricorso ad un’enorme manovra di stimolo monetario. Laddove i tassi di interesse sono negativi, proprio come in Giappone (ma anche in Europa), una mossa del genere può infatti avere un impatto ridotto, e quindi risultare efficace. Il Paese asiatico ha così portato avanti misure espansive per sostenere la crescita, incrementando la moneta all’interno del proprio sistema economico.

Il nostro Paese avrebbe proprio bisogno della medicina adottata a suo tempo da Tokyo: uno stimolo alla crescita in grado, allo stesso tempo, di abbattere le tasse e far ripartire l’economia. Per farlo Roma dovrebbe stimolare l’economia affiancando uno stimolo alla domanda interna, così da assicurare da eventuali crisi estere. Certo, bisogna fare i conti con una differenza non da poco. Il Giappone ha un debito pubblico che si aggira intorno al 240% del Pil – a fronte dell’oltre 150% italiano – ma è altrettanto vero che, a differenza di Roma, Tokyo può contare su un tipo ben differente di sovranità monetaria.

Stipendi e debito pubblico

Intanto gli stipendi giapponesi non hanno tenuto il passo con l’inflazione, e ad agosto i salari reali sono diminuiti dell’1,7% per il quinto mese consecutivo dell’anno. Le tensioni politiche potrebbero ulteriormente appensatire la situazione. Un ipotetico smarcamento dalla Cina – ovvero un taglio delle importazioni da Pechino – costerebbe al Giappone 53 trilioni di yen (353 miliardi di dollari) in perdita di produzione, ovvero circa il 10% del prodotto interno lordo annuo. Senza parti e materiali importati dalla Cina, la produzione di elettronica di consumo, automobili, abbigliamento e altri articoli potrebbe fermarsi in soli due mesi.

Cambiare fornitore sarebbe costoso, comportando ad esempio un aumento del 50% del prezzo di un personal computer e un aumento del 20% del prezzo di uno smartphone, ha sottolineato nelle sue stime Owls, società di consulenza con sede a Tokyo. In tutto questo, e tornando allo yen debole, il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha iniziato a parlare di come utilizzare lo yen debole, piuttosto che combatterlo, promettendo sostegno a 10.000 aziende per sfruttare la valuta.