Home Economy La guerra dell’acciaio entra nel vivo: cosa rischia l’Italia post Ilva

La guerra dell’acciaio entra nel vivo: cosa rischia l’Italia post Ilva

La guerra dell’acciaio entra nel vivo: cosa rischia l’Italia post Ilva

Perché questo articolo potrebbe interessarti? L’Italia, che un tempo ospitava l’acciaieria più grande d’Europa, è in attesa di capire quale sarà il futuro dell’ex Ilva. Intanto l’intero continente rischia di restare schiacciato tra la sovrapproduzione d’acciaio dei colossi siderurgici asiatici e la transizione green.

Che fine ha fatto l’acciaio made in Italy? È scomparso insieme ai sogni di gloria dell’ex Ilva di Taranto. Quella che un tempo era l’acciaieria più grande d’Europa è oggi un gigante dai piedi d’argilla. Ha in funzione due altiforni su quattro e la sua produttività è ai minimi storici.

Nel 2022 ha sfornato 3,471 milioni di tonnellate di acciaio mentre per l’anno appena trascorso ne erano previsti 4 milioni. Risultato: nel 2023 non sono state superate le 3 milioni di tonnellate.  Un risultato pessimo, visto che stiamo parlando di un impianto che, producendo sotto la soglia delle 5-6 milioni di tonnellate annue, va in perdita.

Per tornare ad avere una capacità produttiva che permetta al sito di avere margine, serve un investimento di 4-5 miliardi di euro. Oltre ad un miliardo e mezzo per tenerla in vita e altrettanti per riportarla in attività.

Spostando lo sguardo dal gioiello arrugginito dell’Italia al resto del Paese, nel 2023 la produzione complessiva di acciaio ha toccato le 21 milioni di tonnellate, cioè il 2,5% in meno rispetto al 2022 e il 13,7% rispetto al 2021 (-3,5 milioni di tonnellate). E in Europa? La situazione non è rosea come ci si potrebbe aspettare.

C’era una volta l’acciaio dell’Italia

Nel 2023 la produzione siderurgica dell’Italia è stata la più bassa degli ultimi dieci anni. Nel frattempo l’ex Ilva, il gigante caduto in malora, attende di capire quale sarà il suo futuro.

Il 25 marzo è stato convocato un tavolo tecnico a Palazzo Chigi, al quale hanno partecipato sindacati e imprese dell’indotto relativo all’acciaieria. Qui il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha fatto il punto della situazione e tratteggerà le prospettive in vista di un ipotetico rilancio siderurgico del Paese.

“La nostra politica industriale è chiara, fin dall’inizio abbiamo detto che saremmo partiti dalla siderurgia”, continua a ripetere Urso. Fin qui il governo Meloni ha realizzato due joint venture con altrettanti investitori stranieri, Jindal e Metinvest a Piombino, in attesa di definire il contratto con Arvedi per Terni. L’esecutivo è inoltre impegnato a rafforzare le acciaierie del Nord Italia puntando sulle tecnologie green.

Per quanto riguarda l’ex Ilva, i problemi del colosso sono stati fin qui tamponati tra finanziamenti statali e l’ingresso in amministrazione straordinaria di Acciaierie d’Italia. Il punto è che la struttura non ha liquidità. E il governo non può vincere questa sfida da solo.

Serve un partner privato – in corsa troviamo Jindal, Arvedi e Vulcan – che potrebbe materializzarsi entro la fine dell’anno.  “Penso già prima dell’inizio dell’estate si possa realizzare una procedura pubblica in cui i soggetti internazionali, le grandi holding della siderurgia, possano presentare in maniera compiuta i progetti che già alcuni ci hanno avanzato” per l’ingresso nell’azionariato dell’ex Ilva e il futuro dell’acciaieria, ha proseguito lo stesso Urso.

Le sfide del settore siderurgico europeo

Dicevamo dell’Europa. Nel 2023 l’Unione Europea ha raggiunto le 126,3 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, in calo del 7,4% rispetto al 2022 (dati Worldsteel). In Germania, nel più grande produttore di acciaio d’Europa, è stato registrato il volume più basso dal 2009 con circa 35,4 milioni di tonnellate di acciaio (in calo del 3,9% su base annua), principalmente a causa dei fondamentali deboli e degli elevati prezzi internazionali dell’elettricità.

A pressare il settore troviamo però anche i colossi asiatici, che continuano a produrre – o meglio a sovrapprodurre – acciaio a costi ridotti. Nel 2023 la Cina, la regina dell’acciaio, è cresciuta dello 0,1% a 1,02 miliardi di tonnellate. L’India, il secondo produttore mondiale di acciaio, ha invece aumentato la produzione dell’11,8% a 140,2 milioni di tonnellate.

La produzione in Giappone, il terzo paese al mondo, è scesa del 2,5% a 87 milioni di tonnellate, mentre quella della Corea del Sud ha visto un aumento del  2,7% a quota 5,4 milioni di tonnellate.

C’è la concorrenza a buon mercato dell’Asia da un lato, certo, ma è da tener presente anche quella degli Stati Uniti. La produzione Usa di acciaio grezzo è aumentata dello 0,2% a 80,7 milioni di tonnellate. Il settore ha beneficiato dell’Inflaction Reduction Act varato dall’amministrazione Biden per rendere più conveniente alle aziende investire in America.

L’Europa deve poi fare i conti con il Green New Deal promosso da Bruxelles. Il progetto green, appunto, che ha come obiettivo primario quello di far diventare il Vecchio Continente il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050. E così, nel bel mezzo di una tempesta siderurgica perfetta, le acciaierie europee sono costrette ad adattarsi ai diktat dell’Ue per rendere più sostenibile la loro produzione.