Home Economy Chiudere i porti alla Cina non renderà l’economia italiana più forte

Chiudere i porti alla Cina non renderà l’economia italiana più forte

Chiudere i porti alla Cina non renderà l’economia italiana più forte

La sinofobia di certi settori di politica e opinione pubblica può creare l’idea di un Paese più fragile. Quando la Cina doveva essere depotenziata in certi settori, è già stato fatto: non serve sventolare paure e problematiche laddove non sussistono. Come per la sfida americana e quella francese, anche per la sfida cinese la prima necessità è avere uno Stato capace di pensare strategicamente.

Relazioni contraddittorie con il gigante cinese

La Cina è da tempo una realtà affermata nel quadro del sistema economico internazionale ed intrattiene relazioni strategiche con diversi Paesi occidentali, in cui interviene ed è presente con capitali, progetti, iniziative di medio-lungo periodo.

In Italia gli ultimi anni sono stati, a tal proposito, caratterizzati da un peculiare tourbillon di sentimenti riguardo l’approccio che il sistema-Paese dovrebbe tenere nei confronti della Cina. Dalla lirica e strategicamente inconsapevole decisione di firmare il Memorandum di adesione alla Nuova Via della Seta operata nel 2019 dal governo Conte I, senza al tempo stesso consolidare relazioni chiare in termini commerciali e geoeconomici lasciando dunque all’accordo la forma di un contenitore vuoto, si è passati in diversi casi a una sinofobia e a un allarmismo che spesso pregiudica la lettura chiara di diversi scenari.

Grande potenza commerciale, industriale, finanziaria la Cina giocoforza punta a espandere la sua proiezione all’estero. E come ogni proiezione di Paesi di taglia maggiore, quella cinese in Italia va vagliata con grande attenzione. Ne parlavamo in queste settimane su True News: casi come quello del traballante impero di Suning in cui è inserita l’Inter o, ancor più importante, della presenza di capitali cinesi nel contesto di Cdp Reti e delle strategiche società che essa gestisce impongono riflessioni importanti sui fini di tale penetrazione.

Ma non si può far di tutta l’erba un fascio: e l’approccio di certi sistemi politico-economici alle iniziative cinesi in Italia appare quasi pavloviano: il metus sinicus, la paura della conquista cinese della nostra economia, è incentivata in una fase in cui la rivalità globale di Pechino con gli Stati Uniti si va via via incentivando.

La sinofobia portuale e il caso (gonfiato) dell’hub di Palermo

Di recente è apparsa su diverse testate, a partire dal Quotidiano del Sud, la notizia secondo cui le aziende cinesi Cosco Shipping Ports, compagnia statale cinese con partecipazioni in 15 scali europei, e China Merchants Port Holdings, sotto il controllo del ministero dei Trasporti di Pechino, gruppi che spesso si muovono assieme sui porti europei, avrebbero presentato alle autorità della Regione Sicilia un piano da 5 miliardi di euro per costruire nel porto di Palermo un hub per container.

Si è scatenata una guerra di dichiarazioni a caldo, con il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, esponente di Forza Italia, che parlando con Formiche si è detto indignato e l’onorevole di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro che alla medesima testata ha richiamato addirittura riferimenti classici: “Chi apre le porte delle nostre infrastrutture critiche ai cinesi fa come Efialte, lo spartano che ha aperto il varco ai persiani”.

In ultima istanza però la polemica si è mostrata montata su un’indiscrezione. In una nota, l’Autorità di sistema portuale del mare di Sicilia occidentale (AdSp) ha chiarito che quella dell’ingresso cinese “è una notizia che ritorna ciclicamente e di cui l’Autorità di Sistema portuale del mare di Sicilia occidentale, che ha competenza sullo scalo palermitano, non è al corrente. Evidentemente riguarda aree fuori dalla giurisdizione della stessa AdSP ma che non manca ogni volta di creare confusione”.

Le indubbie mire cinesi su Trieste e Taranto

Questo non è il primo caso del genere. Nei porti di Trieste e Taranto, ad esempio, le mire cinesi sono indubbie e sicuramente degne di attenzione, ma in ultima istanza le offerte estere sono arrivate da operatori tedeschi (a Trieste) e turchi (a Taranto) che hanno contribuito a portare sotto controllo non nazionale settori, moli e infrastrutture strategiche dei porti. Il timore cinese può portare dunque a trascurare da un lato la visione d’insieme dei sistemi cui si fa riferimento e dall’altro a non valutare quanto sia, a livello sistemico, più complesso fare presente a livello decisionale la necessità stessa di valutare l’opportunità o meno di un investimento straniero in un asset prima del suo colore.

Quando la Cina è stata fermata

Sventolare in continuazione il golden power come strumento di liberazione da una presunta conquista straniera, paventando così una debolezza del tessuto economico e industriale, rischia inoltre di far decadere ogni riflessione sul modo d’azione migliore da seguire per affrontare la sfida cinese. Che, come la “sfida americana” oggi in corso con la partita Tim-Kkr e quella francese in atto da anni con una penetrazione ben più sostanziosa e attestata nei fatti, è in fin dei conti da gestire mantenendo ben presenti la priorità di mantenere un forte presidio nazionale sugli asset in termini di tutela delle infrastrutture, gestione del valore aggiunto del sistema e del futuro delle linee guida operative.

Non a caso, una disciplina esiste e quando viene promossa e mandata in campo con fini sistemici ben precisi può contribuire a promuovere adeguatamente l’interesse nazionale: è recente ad esempio  la notizia che Zhejiang Jingsheng Mechanical ha visto bloccato col golden power da Mario Draghi il suo tentativo di creare una joint venture con il ramo hongkonghese di Applied Materials finalizzata all’acquisizione delle sue attività presenti in Italia. La decisione è stata presa in una riunione di gabinetto il 18 novembre, hanno riferito a Reuters due fonti governative, aggiungendo che il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti aveva raccomandato il veto, sostenendo che l’acquisizione avrebbe potuto avere conseguenze nel settore strategico dei semiconduttori.

Inoltre, sembrerebbe che Draghi e Giorgetti vogliano agire allo stesso modo su Alpi Aviation, azienda di Pordenone produttrice di droni militari e fornitrice dell’esercito sulla cui acquisizione da parte di una società registrata a Hong Kong la Guardia di Finanza indaga da agosto.

A luglio 2020, per fare un altro esempio, Cdp Equity ha sottoscritto un aumento di capitale riservato nel quadro di Ansaldo Energia per aumentare all’88% la sua quota e far calare i cinesi di Shangai Electric dal 40 al 12%.

Nessun “effetto Efialte”: solo scarsa consapevolezza delle sfide dell’economia globale

Tutto si può dire tranne che ci sia un “effetto Efialte”: esistono certamente molti accordi sottoscritti da imprenditori e manager con poca attenzione a questioni di lungo periodo e sicurezza nazionale, esistono chiari interessi cinesi in Italia ed esiste una linea politica che oscilla tra la sottovalutazione di qualsiasi ricaduta geopolitica delle mosse economiche e l’ossessione della sicurezza. Ma il problema non appare connesso alla presenza di capitali cinesi in sé, quanto piuttosto legato alla nostra scarsa consapevolezza della natura competitiva e sistemica delle sfide dell’economia, dell’innovazione e dei settori strategici su scala globale.

Sul 5G non si può fare a meno della Cina

Paradigmatico di questo tema è il dilemma sul 5G a tecnologia cinese, che vede protagonisti in Italia gruppi come Huawei e Zte e che da diversi politici e da giornalisti come Milena Gabanelli è stato associato a un rischio per la sicurezza nazionale. Nel pieno della competizione globale per la realizzazione delle nuove reti ad alta tecnologia, nel quadro delle pur comprensibili riflessioni europee ed italiane sul bilanciamento da cercare tra le società dell’Impero di Mezzo e quelle a stelle e strisce e sulla ricerca di una “via europea” all’innovazione, le due aziende capofila del 5G cinese stanno espandendo la loro presenza in Italia.

E questo è un fattore che prima ancora di avere rilevanza strategica o geopolitica è “strutturale”: le telco cinesi si trovano ad avere una superiorità tecnologica nell’ambito del 5G, hanno beneficiato del decollo degli investimenti pubblici e privati nel loro Paese d’origine, stanno costruendo e impostando i nuovi standard e beneficiano del vantaggio del first mover nel campo tecnologico.

Le loro attività sono dunque da monitorare per capire lo stato dell’arte dell’avanzamento delle dinamiche sul 5G in Italia ma, è bene ricordarlo, non mancano mai di coinvolgere player nazionali: Tim, Fastweb, Inwit e altri attori mantengono alti standard securitari per l’accesso ai loro contratti e, inoltre, Zte in particolare mira a presentare sul suolo nazionale importanti investimenti per sviluppare la sicurezza tecnologica. Il gruppo guidato in Italia da Hu Kun a maggio dell’anno scorso ha siglato un accordo quadro con il Consorzio Nazionale interuniversitario per le Telecomunicazioni (Cnit) volto a rafforzare la partnership nel campo della Cyber Security per lo svolgimento di attività di supporto all’identificazione e definizione di metodologie di test, e supervisione delle relative attività.

A testimonianza che in ogni settore, prima di fermarsi al coloro della bandiera dell’investitore, bisogna vedere le carte e puntare a creare sinergie di sistema. Senza che la sinofobia, nel caso della Cina, sia la stella polare delle decisioni.