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Affari di guerra, chi guadagna col conflitto Israele-Palestina

Affari di guerra, chi ci guadagna col conflitto Israele-Palestina

Perché questo articolo potrebbe interessarti? Le sette sorelle in occidente, ma anche Aramco, Qatar Energy, Sonatrach in medio oriente: ecco le multinazionali che potrebbero guadagnare dall’aumento del prezzo degli idrocarburi generato dalla guerra in Israele. Anche Gazprom osserva interessata

Ogni guerra ha le sue gravi conseguenze economiche. Specialmente quando il conflitto riguarda un’area strategica quale il medio oriente. I combattimenti iniziati sabato mattina nel sud di Israele stanno causando, quale primo effetto, l’innalzamento dei prezzi degli idrocarburi. Petrolio e gas hanno subito nuove impennate nei listini, il primo lunedì successivo allo scoppio della guerra per le borse rischia di essere molto difficile. Ci sono quindi alcune grandi aziende che, con l’innesco delle nuove tensioni nell’area mediorientale, potrebbero guadagnare o almeno ridimensionare i cali dei guadagni dei mesi precedenti.

Sale il prezzo del petrolio a causa della guerra

Né in Israele e né a Gaza si produce greggio. Lo Stato ebraico non ha grandi riserve nel sottosuolo, al contrario di numerosi vicini arabi. E all’interno della Striscia di Gaza, il cui territorio ha una modesta superficie, non è mai stata accertata la presenza dell’oro nero, così come di altre materie prime.

Eppure il prezzo del petrolio ha subito un importante rialzo. In media, nelle scorse ore il greggio ha iniziato a costare di circa il 5% in più rispetto alla settimana scorsa. Le quotazioni del Wti sono salite fino a 86 Dollari al barile, quelle del Brent invece hanno sforato quota 87 Dollari. Per dare un’idea, l’oro nero a inizio luglio era attestato a circa 70 Dollari al barile, a inizio agosto ha toccato un massimo di 81 Dollari.

L’oscillazione è evidente e, come sottolineato su Money.it, appare ben ricollegabile al conflitto in Israele. Se da un lato è vero che nell’area dei combattimenti non risultano esserci pozzi e giacimenti, dall’altro però occorre valutare diverse variabile politiche. In primis, c’è la valutazione del rischio destabilizzazione dell’intera regione mediorientale. E dunque, all’interno dei mercati è stata presa in considerazione la possibilità di importanti difficoltà per i rifornimenti verso l’occidente. Se il conflitto dovesse allargarsi per esempio, coinvolgendo anche Libano e Iran, l’intero medio oriente risulterebbe in guerra con gravi conseguenze per le forniture e per la sicurezza.

Occorre inoltre tenere conto delle prese di posizioni politiche dei governi mediorientali. Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti ad esempio, potrebbero avvicinarsi oppure allontanarsi dalla linea occidentale in una fase in cui, specialmente a Riad e Abu Dhabi, erano in corso tentativi di normalizzazione dei rapporti con Israele.

Per questo dunque, in relazione all’oro nero, le modalità di reazione dei mercati si possono paragonare (o quasi) a quelle osservate subito dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina, avvenuto nel febbraio del 2022.

Occhi puntati sulle sette sorelle

Quando si parla di innalzamento del prezzo del petrolio, il pensiero va immancabilmente alle cosiddette “sette sorelle”. Alle multinazionali del greggio cioè che da decenni hanno una grande influenza nel mercato internazionale. Tra queste occorre ricordare le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California, Gulf Oil, Royal Dutch Shell e British Petroleum.

Per loro il 2023 non ha rappresentato, fino a questo momento, una delle migliori annate. Il rallentamento globale dell’economia, la fine repentina della crescita post Covid in Europa, le difficoltà in Cina, sono stati tutti elementi in grado di far calare la domanda di petrolio. L’innalzamento dei prezzi del greggio, proceduto in modo costante nella seconda parte dell’anno in corso e ora destinato a ricevere ulteriori accelerazioni dopo lo scoppio del conflitto in Israele, potrebbe garantire importanti introiti. Tali da limitare i danni oppure annullarli del tutto. A condizione ovviamente che la situazione in medio oriente non precipiti del tutto. Le aziende in questione gestiscono direttamente o indirettamente molti giacimenti nell’area del Golfo e non solo: in caso di destabilizzazione, i prezzi potrebbero sì schizzare alle stelle ma la situazione a livello logistico rischierebbe di essere compromessa.

Aramco e Qatar Energy osservano interessate la guerra

Ma nel novero delle aziende dell’energia in grado di guadagnare dal conflitto, non ci sono soltanto nomi di multinazionali occidentali. Nelle ore immediatamente successive all’inizio del conflitto ad esempio, c’è stata molto attesa per valutare la reazione del governo dell’Arabia Saudita. Questo per due motivi specifici: da un lato Riad è il maggior produttore nell’ambito dei Paesi Opec, dall’altro è uno dei Paesi arabi impegnato in un difficile percorso di normalizzazione dei rapporti con Israele.

Se la scelta dei Saud fosse stata indirizzata verso un sostegno pieno alla causa palestinese, il prezzo del petrolio sarebbe stato destinato a maggiori rialzi. Alla fine la linea scelta da Riad assomiglia molto a un compromesso: da un lato l’Arabia Saudita, come fatto dai vicini arabi, ha evidenziato responsabilità israeliane nell’escalation degli ultimi mesi ma ha invitato tutte le parti alla moderazione.

Ad ogni modo, del rialzo del prezzo del petrolio ovviamente ne usufruisce pure il regno più grande della penisola arabica. Con la Aramco, l’azienda del petrolio di Riad, pronta a veder aumentati i propri guadagni. Peraltro in una fase di espansione del proprio brand, impegnato in diverse sponsorizzazioni sportive e sempre più presente quindi sotto gli occhi del pubblico occidentale.

Non è solo il petrolio però ad aver assistito all’aumento dei prezzi. Era inevitabile che anche il gas subisse la stessa sorte. Inevitabile perché da diversi mesi a questa parte il gas lo si estrae anche a largo di Israele per poi essere inviato in Egitto per l’esportazione. Dunque il conflitto coinvolge aree importanti per la produzione. Ad avvantaggiarsi dell’aumento del prezzo del gas potrebbe essere soprattutto uno dei massimi produttori, ossia il Qatar. Con la Qatar Energy che osserva da vicino quanto sta accadendo.

Gazprom e Sonatrach potrebbero beneficiare dell’aumento del gas

Interessante notare la posizione di altri due colossi dell’energia: la russa Gazprom e l’algerina Sonatrach. La prima da un ulteriore aumento dei prezzi, potrebbe recuperare terreno dopo le note vicende che hanno coinvolto Mosca e la scelta di molti Paesi europei di non acquistare più gas dalla Russia. La seconda invece è di proprietà di un governo, quale quello algerino, che non ha condannato l’azione di Hamas e si è mostrato apertamente vicino alla causa palestinese. Occorre ricordare che ad Algeri si sono rivolti molti Paesi che hanno rinunciato al gas russo, tra cui l’Italia di cui oggi l’Algeria è prima fornitrice. La scelta politica del governo potrebbe quindi avere dirette ripercussioni sul prezzo del gas e generare quindi ulteriori introiti alla Sonatrach.