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Podcast: non ne ho mai seguito uno e campo benissimo

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Podcast, chi non ne fa uno? Dice bene Guia Soncini su Linkiesta: parafrasando, sostiene che nemmeno troppo tempo fa per autolegittimarsi all’interno dell’intelleghenzia che conta, uno si sentiva in dovere fisico-morale di scrivere un libro. Oggi chiacchiera e si registra. Per ore.

Un trend importato dagli Stati Uniti, un po’ come Halloween, che oggettivamente sta infestando il nostro quieto vivere. Ogni giorno apriamo i social nella speranza, disattesa, di non imbatterci in un post celebrativo con cui un amico, un conoscente, un cugino panettiere ha da dirci che “coming soon” uscirà il suo podcast. #WorkInProgress, #LoveMyJob. Qualcuno dice di ascoltarli davvero, altri che non possono vivere senza. Di solito, sono parenti del “creator”. Oppure, se il “creator” in questione è abbastanza/molto seguito, suoi lacchè: sperano, tramite commento entusiasta di vampirizzare un po’ di seguito del soggetto chiacchierino. Potrebbe pure parlare di marzapane posso in 18 appassionanti puntate, ma follower non olet.  Una gigantesca bolla autoreferenziale che non si spiega, ma si sente. Purtroppo. Draghiamo questo abisso, tra corsi da centinaia di euro per imparare a realizzarne uno, panel chiarificatori del fenomeno e la gente che, sostanzialmente, se ne frega. 

Podcast: parlare da soli non è mai stato così trend

Podcast, per farne uno, per farlo “bene”, c’è da comperare un microfono ad hoc. E poi stabilirsi in un bunker antiatomico insonorizzato in modo da poter registrare alla perfezione un audio-capolavoro che pressoché nessuno si accollerà la briga di sentire. Qualche mese fa, nel pieno della eco mediatica della guerra in Ucraina – che, breaking, c’è ancora – si era parlato di una sempre più crescente richiesta di bunker sotterranei. Per paura che il conflitto armato potesse raggiungere anche il nostro territorio, si diceva. Oppure perché tutti volevano registrare un podcast. Chissà. Sta di fatto che ne esistono centinaia, che hanno classifiche e premi ad hoc. Se ne parla come di un irrinunciabile approfondimento culturale nel 2023. Se non ci sei, ti perdi un mondo di informazioni, emozioni perfino, ma soprattutto spremute di ego un tanto al chilo. Sostanzialmente, un “podcaster” è uno che parla da solo per ore, senza essere internato. Per diventare “podcaster” ha magari acquistato una delle miriadi di corsi online, anche da svariate centinaia di euro, che furoreggiano nelle sponsorizzate sul web. O quelli, o qualcosa per capire, a fondo, i meandri della blockchain. La combo la sta facendo Fedez con il suo progetto Wolf. Che, infatti, non si fila un’anima lessa. Questo bisogno di podcast che non vuole sentire ragioni è pressoché inspiegabile. Con rispetto parlando, da che mondo è mondo, in auto si cambia stazione quando uno speaker inizia a blaterare, andando a cercare una frequenza FM che trasmetta, invece, musica.

 

Podcast: un’altra vita è possibile

Personalmente, ho provato ad ascoltare podcast. Podcast di cronaca nera, perché ho una certa propensione per casi irrisolti e storie maledette. Una noia mortale. Franca Leosini già negli anni Novanta, nella sua ora e passa di intervista con il galeotto criminale di turno, riusciva a mantenere altissima la soglia d’attenzione di un qualunque spettatore. Le prove sono, tutte, su Youtube dove potete trovare ogni puntata Rai di, appunto, Storie Maledette. Facendo pace col fatto che nessuno, prima di parlare “in pubblico”, si ponga più il problema di imparare un minimo di dizione perché, ovvio, tutti siamo unici e speciali così come siamo, difetti di pronuncia compresi, non è fisicamente possibile seguire un podcast senza appisolarsi. O senza fare altro. Però, come succede per i nomi chic appioppati ai quartieri di Milano, bisogna dire che piacciono, altrimenti il rischio è quello di manifestare una nostra supposta ignoranza. L’incapacità di comprendere un fenomeno che piace alla gente che piace. E a cui piace, soprattutto, non essere retribuita per il lavoro svolto. Quanto tempo libero può avere, in media, una persona e perché decide di buttarlo proprio per imparare a “fare” un podcast che nessuno ascolterà? O che potrà essere anche seguitissimo da qualche migliaio di sciagurati su Instagram, sì. Ma quando tutto ciò si convertirà in effettivo guadagno? Probabilmente, mai. Contro la dittatura del podcast moderno, l’unica soluzione è dirlo. Dire ad alta voce che no, esiste gente – siamo tanti – che i podcast non li seguono, non li hanno mai ascoltati e che campa benissimo nonostante. Facciamo esplodere questa bolla di omertà. Rompiamo i maroni a quelli che benascoltano. Senza alcuna soggezione, con coraggio. Siamo dalla parte giusta della storia. Quella che, infatti, non viene registrata.