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Gianni Minà, il giornalista di sinistra che piaceva a Castro

Gianni Minà

Perché questo articolo potrebbe interessarti? E’ scomparso ieri all’età di 84 anni il giornalista Gianni Minà. Il suo è stato un percorso umano e professionale unico, a cominciare dall’intervista al Leade Maximo cubano Fidel Castro durata ben sedici ore.

Gianni Minà se n’è andato a 84 anni per una malattia cardiaca. Alla fine a tradirlo è stato proprio il suo grande cuore. Quello che lo aveva fatto schierare sempre dalla parte degli ultimi e degli oppressi. Per dare voce a loro, aveva intervistato tutti i più grandi del mondo. E di molti di loro era diventato amico, a partire da Fidel Castro, che Minà aveva sottoposto a un fuoco di fila di domande durato ben sedici ore.

Gianni Minà, un cuore che batteva a sinistra

Il suo cuore che batteva a sinistra, Minà non lo nascondeva e forse è stato l’unico giornalista apertamente schierato del quale oggi piangono la morte tutti (o quasi). Perché ai veri giganti del giornalismo, al di là di dove scelgono di collocarsi politicamente, tutti hanno il dovere di tributare l’onore delle armi.

Durante una intervista, Massimo Troisi disse che di Minà la cosa che più invidiava era l’agenda. Una rubrica fittissima di nomi e numeri di personaggi che hanno fatto la storia. Una delle foto più famose lo ritrae in una trattoria romana insieme allo scrittore Gabriel Garcia Marquez, al regista Sergio Leone, al pugile Mohamnmed Alì (Cassius Clay) e all’attore Robert de Niro.

Leone stava girando il suo capolavoro C’era una volta in America e Gianni Minà era stato l’unico giornalista ammesso con la sua troupe – erano i tempi di “Blitz” su Raidue, sul set blindatissimo dal quale fece un collegamento in diretta.

Eravamo noi e Gianni Minà

Una volta gli avevano chiesto di raccontare com’era nata quella tavolata. Lui la raccontò così: “Era il 1982, c’era Muhammad Ali in Italia, l’avevamo fatto venire per Blitz; a quei tempi ci permettevamo questi lussi su Rai Due. Un giorno uscii di casa per andare a prendere Muhammad all’hotel Hilton e portarlo a pranzo e in quel momento squillò il telefono. Era Robert De Niro che in quel periodo si trovava a Roma e voleva evitare ogni tipo di assembramento o contatto con la gente. Gli dissi che sarei andato a pranzo con Muhammad Ali e lui rispose: ‘Vai a pranzo con Muhammad Ali e non mi inviti?!’ e allora gli dico: ‘Va bene vieni anche te’. Passa neanche un minuto e risquilla il telefono, rispondo e dall’altra parte sento: ‘Ma allora tu sei un figlio de na…. Ma come? Io devo parlare con Bob di lavoro e lui dice che deve andare a cena con te e Ali. E a me nun me porti?’.

La chiamata di Gabriel Garcia Marquez

Era Sergio Leone… gli dissi: ‘Vieni anche te, andiamo da Checco er Carrettiere.‘ Ero pronto per uscire di casa finalmente, ma risquillò il telefono nuovamente ed ero indeciso se rispondere o meno. Alla fine risposi e dall’altra parte una voce disse: ‘Ora tu dirai che sono un figlio di ….’. Era Gabriel Garcia Marquez, futuro premio Nobel della Letteratura. Gli dissi: ‘Eh perché saresti un figlio di…” E lui: ‘Perchè sono alcuni giorni che mi trovo a Roma e quindi sono un figlio di… perchè non ti ho chiamato. Però anche tu lo sei; vai a pranzo con Muhammad Ali e non me lo dici? E’ il sogno della mia vita’. Gli dico: ‘Vieni pure anche tu’. E così tavolo per cinque.

Maradona parlava solo con Minà

Minà raccontava l’aneddoto senza farsene alcun vanto, anche se avere dei commensali del genere in un colpo solo sarebbe il sogno di qualunque giornalista. Lui, che aveva cominciato come giornalista sportivo nel torinese Tuttosport nel 1966 (tre decenni dopo manterrà la direzione del quotidiano per un biennio), aveva natali sabaudi ma origini napoletane. Molto legato a Diego Armando Maradona, a Massimo Troisi e a Pino Daniele, dal sindaco Luigi De Magistris riceverà la cittadinanza onoraria del comune partenopeo.

“Che succede, Diego?”, chiese Minà al Pibe de oro in una delle sue più famose interviste, in cui il fuoriclasse argentino parlò di un malessere dal quale non riusciva ad uscire. L’intervista fu realizzata il 25 novembre del 1990, l’amicizia tra i due era nata quattro anni fa ai Mondiali nel Messico. Solo con lui, Maradona riusciva a parlare di privato, ad aprirsi. “Parlo solo con Gianni, solo con lui”, sentenziava il 10 argentino senza possibilità di replica ai cronisti che si affannavano a raggiungerlo con il microfono mentre tornava negli spogliatoi dopo la semifinale Italia-Argentina dei Mondiali di quell’anno, disputati qualche mese prima.

Espulso dall’Argentina del dittatore Videla

Minà aveva seguito otto mondiali di calcio e sette Olimpiadi e numerosi mondiali di boxe quando sul ring il re indiscusso era Mohammed Alì. Nel 1978 fu espulso dall’Argentina durante i campionati del mondo di calcio perché fu l’unico giornalista che ebbe il coraggio di porre in conferenza stampa una domanda sui desaparecidos. E cominciare a indagare fuori dagli stadi su come il dittatore Videla metteva a tacere il dissenso.

Il giornalista scomparso aveva interesse a raccontare le condizioni dei popoli dannati della terra, sposò le istanze no global nel suo  libro Un mondo migliore è possibile, un saggio tradotto in Portogallo, Spagna e Francia uscito in occasione del Forum Sociale di Porto Alegre nel 2001.

La grande passione di Minà era l’America Latina. Oltre alla celebre intervista a Fidel Castro, collaborò al film I diari della Motocicletta sugli anni giovanili di Ernesto Che Guevara e Alberto Granado e fu direttore della rivista Latino America. Per non parlare dell’amicizia con scrittori come Gabriel Garcia Marquez ed Eduardo Galeano. Fu anche direttore per Sperling & Kupfer della collana Continente Desaparecido.

Minà, schiena dritta e niente tessere di partito

Collaboratore di Repubblica, Corriere della Sera, Unità e Manifesto, Minà non aveva mai avuto tessere di partito. Finì nel mirino di Bettino Craxi nonostante fosse stato collaboratore di “Mixer” del socialista Giovanni Minoli, e nonostante il successo di Blitz fu estromesso dalla Rai per lunghi anni.

Quando al settimo piano di viale Mazzini sedeva Letizia Moratti, un’assistente della presidente chiamava i direttori delle reti Rai dando una lista di persone non gradite: il nome di Minà era insieme a quelli di Simona Marchini, Beppe Grillo, Italo Moretti. Eppure prima a Blitz, poi a Storie, Minà in Rai aveva portato ospiti del calibro del Dalai Lama, Jorge Amado, Luis Sepúlveda, Martin Scorsese, John John Kennedy, don Luigi Ciotti, Franco Battiato. E ancora, Federico Fellini, Giulietta Masina, Eduardo De Filippo, Enzo Ferrari, Leo Ferrè, Jane Fonda, Fabrizio De Andrè.

I suoi due rimpianti

Due i rimpianti, nella sua straordinaria carriera: la mancata intervista a Paul Mc Cartney («mi permise di incontrarlo nell’89, in occasione del suo tour da solista perché avrei voluto imbastire un documentario su di lui… ma i rispettivi impegni ce lo impedirono») e quella a Nelson Mandela («ci rincorremmo per due anni e poi non se ne fece più nulla»).

“Non mi hanno più voluto in Rai per aver intervistato Fidel, Lula, Hugo Chávez. Chi dice qualcosa di diverso dal pensiero degli Stati Uniti rischia l’isolamento. Speriamo qualcuno abbia la volontà di capire che non si possono più tacere le cose e che un Paese non cresce se la verità viene calpestata” aveva detto a chi gli chiedeva perché non si vedesse più in tv in tempi recenti. I suoi sono stati sessant’anni di una grande carriera, tutti vissuti con la schiena dritta, senza scendere a compromessi. Come dovrebbe essere per ogni giornalista. Ma di Minà ce ne è stato uno solo.