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Corna Segre-Seymandi: e adesso cosa diavolo c’entra il “femminicidio”?

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Corna Segre-Seymandi, che scoop! Nessuno si sarebbe mai che immaginato un sabaudo tradimento avrebbe militarizzato il gossip estivo, piallando perfino gli inciuci dei soliti zarri reduci da Temptation Island. Per alcuni, anzi per molti, questo fa parte del problema: una vicenda così privata tale doveva restare. Intanto, tutti ci scapicolliamo a spargere i nostri personali due cent, dando ragione al cornuto o alla fedifraga. Come fosse un derby. Un derby ben scemo, visto che non conosciamo la vicenda per intero e nemmeno i suoi protagonisti. Ma tant’è, vox populi vox dei. Senza entrare nel merito della questione – perché, appunto, sarebbe impossibile e tra l’altro ce ne frega pure poco – troviamo che qualcosa da dire, comunque, ci sia. Qualcosa che prescinde dalle ragioni legali – quelle se le vedranno gli avvocati che no, non esercitano su Twitter (pardon, X!), ma che torna sul concetto di derby, per non dire di “guerra”. Un derby, una guerra femmine contro maschi in cui le prime sono sempre vittime d’ufficio e i secondi bruti, marrani, violenti, disturbati per natura. Le corna Segre-Seymandi sono, purtroppo, un ottimo esempio di come tale narrazione sia ormai pervasiva nel modo in cui i principali (social) media scelgano di dare quelle che ritengono essere notizie. E questo non va bene. Non va bene perché così prima formano un’opinione “di massa” e poi la alimentano, di fatto armando gente che fino al giorno al prima una animosità del genere nemmeno la contemplava. Ma un bel mattino se la ritrova. E si indigna, sbraita, vomita bile nei commenti. In questo pezzo non si esprimono pareri lapidari su chi ha ragione e chi torto sul “caso” Segre-Maynandi. Qui ci si ferma prima, molto prima. E ci si dispera per il mondo che, inesorabilmente, stiamo apparecchiando con le nostre stesse mani.

Corna Segre-Seymandi: non ce ne frega niente se pure voi siete cornuti

Corna Segre-Seymandi e quella irrefrenabile urgenza di mettere i fatti propri in piazza. Se il banchiere sabaudo viene deprecato proprio per essersi macchiato di tale efferato gesto, non c’è cristiano su Twitter (pardon, X!) che nelle ultime ore non si sia sentito di raccontare “quella volta che”, premurandosi poi di prendere le parti dell’una o dell’altro “litigante”. Sinceramente, non ce ne può fregare di meno. E questo “caso” non può diventare lo sfogatoio nazionale, una buona occasione per dire che le donne “sono tutte tr0ie” e gli uomini parimenti “str0nzi” solo perché a te, GianMaurizio di Brembate, MariaLuce di Forlì, è capitato di non riuscire più a passare dalle porte un brutto mattino. La questione non è ombelicale, la questione è sociale. Certo, impossibile non ritrovarcisi, magari pure empatizzare. Detto questo, nulla giustifica i termini fatti scendere in campo per definire Segre: “violento”, “sadico”, “sicuramente narcisista patologico”. Sui social fioccano addirittura diagnosi (?!) come fossero hashtag anche perché, oramai, a furia di ciarlarne a vanvera, la semantica della psichiatria viene saccheggiata ogni giorno, senza dar più peso alle parole. Che pur tuttavia un peso lo hanno eccome. Ci perdeva le staffe già Nanni Moretti negli anni Ottanta, figuriamoci, non siamo certo noi a scoprire l’acqua liquida. Però la reazione, il percepito e il modo in cui questa “notizia” viene ribattuta dai più comuni utenti come anche dalle migliori menti della nostra creme intellettuale porta a un’inevitabile riflessione: se tutto va bene, siamo spacciati. Il carico pesante, forse fiutando l’onda lunga delle reazioni di condanna al cornuto, lo mette la stessa Seymandi affermando di sentirsi “vittima di femminicidio”. Allora, facciamo un bel respiro, con calma. 

Corna Segre-Seymandi: perché non si può parlare di “femminicidio”

Di come ritiene di condurre la propria vita tale Cristina Seymandi ci importa niente. Ha davvero tradito? È stata a sua volta fatta cerva prima di trovar l’amore in un noto avvocato sabaudo? Fatti suoi, davvero, nulla di tutto ciò è rilevante. Che lei dica, però, di sentirsi “vittima di femminicidio” (mediatico) resta aberrante. Il “femminicidio” è quando una donna muore uccisa per mano di un uomo. Se la ammazza un’altra femmina, invece, no. Lì è omicidio standard, non fa statistica, non ci interessa. Oppure sì, può sempre essere un caso di “patriarcato interiorizzato”, chissà. Prescindendo dai cortocircuiti che il termine già di suo porta con sé, faremmo umilmente notare una piccola ma nodale evidenza fattuale: Cristina Seymandi è viva e vegeta. E buon per lei. Anche solo in virtù di questo infinitesimale dettaglio, definire quel video “femminicidio” non è prendere una traversa, è inforcare la palla e dirottarla consapevolmente su Marte. E fa arrabbiare. Fa arrabbiare perché resta, nei fatti, uno sfregio a chi ci è rimasta sotto(terra) davvero. Di violenza si muore un giorno sì e l’altro pure. Non è che “femmicidio”, come “omicidio”, sia una parolina da sperperare così, alla leggera, un mero sinonimo pressapochista. Non sta bene su tutto. La speranza, in realtà, è che possa non stare bene proprio su niente, prima o dopo. Non spenderla per un fattarello misero come le corna Segre-Seymandi sarebbe il minimo per conservare della decenza. Eppure, non ce la stiamo facendo.

Corna Segre-Seymandi: le parole sono importanti

Zerocalcare ha dichiarato che nella sua seconda serie per Netflix, “Questo mondo non mi renderà cattivo”, usa “nazisti” per definire i cattivi perché “fascisti” oramai è termine inflazionato, si dice un po’ per tutto e così, di fatto, è stato privato della sua valenza “negativa” originale. Su Hitler, invece, siamo ancora tutti d’accordo: pessima persona. Oggi “fascista” può essere pure chi non la pensa come te in merito ai frutti di bosco. Specie sui social. Quante parole vogliamo ancora svilire, svuotare, rendere circensi, buone per la rubrica gossip al sole di qualche rotocalco estivo? Non è problema da poco: usare a sproposito un termine che, invece, di suo indica e stigmatizza un problema, rende quel problema via via meno urgente, rilevante. Fino a farlo diventare solo una cosa di cui si parla perché ne parlano tutti, ossia una moda, un trend. Ecco, non vediamo dove possa possa essere il risvolto positivo di questo “trend”. Cosa volete farci con la morte violenta di un numero impressionante di femmine, magliette a 10 euro? Tutte in giro con la scritta “Femminicidio Brutto” come fosse Frida Kahlo e questo sì che romperà i maroni al patriarcato, che risolverà la questione una volta per tutte. No, risolverà solo il fatturato del primo stronz0 a cui verrà l’idea (prego, non c’è di che).

Corna Segre-Seymandi: intanto oggi un maschio etero cis…

Intanto, ora come ora, un maschio etero cis (razza crudele!) non è libero di dire nemmeno che non gli sia piaciuto il film di Barbie senza essere tacciato di far parte di un grosso, enorme problema sociale. Mentre se Segre fosse stato donna, ovviamente, sarebbe la nuova regina dell’empowerment femminile, magari un po’ vrenzola, caciarona, ma “idola” lo stesso, come Shakira, una di noi. Pur essendo femmina, non faccio parte di queste “noi”, queste “noi” mi fanno orrore. Voglio, invece, fare parte di un “noi” più grande, quello reale e sociale, che contempla l’esistenza di tutti: uomini e donne. Che contempla, insomma, l’esistenza delle persone e in quanto tali, non per ciò che hanno in mezzo alle gambe, le considera. Considera le loro azioni da individui senza il peccato originale del genere a cui appartengono. Perché, non me ne voglia Instagram, nascere maschi non è un peccato originale. Esattamente come non lo è venire alla luce femmina. Rispondere alla violenza con altrettanta violenza non ha mai portato a un nuovo mondo migliore. Al massimo, a un nuovo mondo sì, ma pur sempre dispari per altri, osceni motivi. Non il mondo che vorrei, non quello che vorremmo “noi”. Diamoci pace.