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Referendum in Ucraina, Mosca passa dalla tragedia alla farsa

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Perchè potrebbe interessarti? Putin ha indetto un nuovo referendum per quelle che considera “le sue regioni”. Ma non è la prima volta che accade.

Prima la tragedia con l’invasione dell’Ucraina e la guerra, adesso la farsa con i referendum. Mosca non indietreggia e ha indetto le consultazioni referendarie in quelle che considera “sue” regioni.

I cittadini delle autoproclamate repubbliche autonome del Donbass, Lugansk e Donetsk – già riconosciute indipendenti da Vladimir Putin alla vigilia dell’invasione -, e le aeree degli oblast di Kherson e Zaporizhzhia – sotto il controllo russo dalle prime fasi dell’offensiva, dovranno rispondere al quesito se vogliono unirsi alla Federazione russa.

Il risultato a favore del sì appare scontato, dato che  sarà deciso a maggioranza semplice, senza quorum, e non dovrà essere confermato da alcun organismo terzo.

E’ successo già otto anni fa. Il 20 febbraio 2014 iniziò l’invasione della Crimea da parte delle forze armate della Russia. Venne organizzato a tempo record un referendum che si concluse con un risultato “bulgaro” superiore al 95% di voti favorevoli.

Il referendum strumento già usato in Crimea

Secondo gli analisti internazionali la consultazione-farsa decisa dal Cremlino (si voterà dal 23 al 27 settembre) è un modo di giustificare eventuali attacchi futuri da parte di Mosca. La dottrina di difesa russa prevede, infatti, l’uso di armi nucleari tattiche in caso di aggressione contro la Russia con l’uso di armi di distruzione di massa o convenzionali che minaccino “l’esistenza dello Stato, la sovranità e l’integrità territoriale del Paese”. Se i territori dei referendum venissero “russificati”, gli attacchi in quelle zone sarebbero considerati, pertanto, in territorio di Mosca.

Ci sono numerosi precedenti di referendum o elezioni, e non solo nei paesi dell’ex blocco sovietico, palesemente truccati, che sono stati contestati dalle opposizioni.

Dalla Birmania al Nicaragua

Nel 2010 in Birmania, dove non si votava da vent’anni, le elezioni del 7 novembre furono segnate da aggressioni e minacce ai rappresentanti delle minoranze. La giunta militare, che utilizzava le elezioni per darsi un volto democratico, influenzò l’andamento del voto, accettando da un lato gli abusi perpetrati dai candidati del partito allineato USDP (Union Solidarity and Development Party) e dall’altro lato facendo chiudere per motivi di sicurezza molti dei seggi in cui si presentano candidati poco allineati.

In Messico, nell’aprile scorso, il presidente Andrés Manuel López Obrador ha indetto un referendum popolare in cui celebrava se stesso, chiedendo ai messicani se meritava di restare al suo posto di presidente o se dovesse mollare. E’ rimasto, ovviamente.

Nel 2018, in Cambogia, alle seste elezioni indette, Hun Sen, l’uomo forte al potere dal 1985, ha vinto dopo aver fatto sciogliere dalla magistratura il suo unico avversario di rilievo.

In Egitto Al Sisi correva da solo

Nel marzo dello stesso anno molte autorevoli reti per i diritti umani e media indipendenti hanno definito “una pagliacciata” le elezioni presidenziali in Egitto. Il presidente Abdel Fattah Al Sisi correva di fatto da solo. C’era un solo altro candidato, Moussa Mustafa Moussa, personaggio semi-sconosciuto vicino ai servizi segreti, dichiaratosi sostenitore di Al Sisi. In tutta la campagna elettorale aveva fatto solo due comizi e detto più volte ha detto di non voler sfidare il presidente.

L’8 novembre 2021 in Nicaragua Daniel Ortega vinceva per la quarta volta, dopo 14 anni al potere. Ma sette candidati dell’opposizione erano stati arrestati. L’osservatorio Urnas Abiertas aveva registrato una serie di irregolarità durante le elezioni. Nelle prime ore dello svolgimento del voto, secondo Urnas Abiertas, erano stati segnalati 200 atti di violenza nei seggi, come intimidazioni e l’impedimento a esponenti dell’opposizione di presidiare i seggi, ma anche obbligo per i dipendenti statali di inviare ai superiori candidati la prova che li avevano votati.

Un referendum con 50 quesiti in Kazakistan

In Kazakistan Qasym-Jomart Toqaev, successore di Nursultan Nazarbayev, che è stato presidente per trent’anni, dal 1990 al 2019, ha voluto subito dopo il suo indediamento un referendum sulla nuova carta costituzionale. Secondo gli oppositori del regime, il referendum è stato una farsa: non c’è mai stata una campagna informativa sulle conseguenze del voto e gli elettori hanno dovuto indicare “sì” o “no” rispondendo a ben 50 domande. Tokayev, tra l’altro, manterrà il potere di approvare o respingere le leggi, indire elezioni parlamentari, nominare il primo ministro e altri esponenti di governo.

L’ultima volta che Alexander Lukashenko ha vinto le elezioni in Bielorussia era già al potere da 26 anni. Il risultato: 80,2% per “l’ultimo dittatore d’Europa e 9,9% per l’unica seria contendente, Svetlana Tikhanovskaya, era stato  abbondantemente viziato da brogli, secondo gli oppositori. Difficile controllare: non erano stati ammessi osservatori indipendenti alle operazioni di spoglio, eseguite in segreto.