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Medici e infermieri in fuga dalla trincea del pronto soccorso

Medici e infermieri in fuga dalla trincea del  pronto soccorso

A inizio dicembre, in concomitanza con l’approvazione della Riforma della Sanità in Lombardia e della discussione della Legge di Bilancio, i sanitari dell’emergenza sono scesi in piazza a Roma per protestare contro condizioni di lavoro sempre più difficili, scarso riconoscimento professionale e carenze di organico.

La perenne crisi del sistema si è aggravata nel 2019, con il pensionamento di 5.000 medici del Ssn e più di 3.000 nel settore privato o come medici di famiglia. Il dottor Andrea Filippi, segretario nazionale della Fp Cgil Medici – con il supporto dei dati forniti dal dottor Giancarlo Go, funzionario Area Sanità Fp Cgil Nazionale – analizza un problema nel problema, quello della “fuga dal pronto soccorso”.

Dottor Filippi, cosa ha portato in piazza il mondo della Medicina d’Urgenza? Quali sono le rivendicazioni di medici e operatori sanitari dei pronto soccorso?
Tutto il servizio emergenza urgenza è sceso in piazza, un gravissimo punto debole della nostra sanità perché non ha uniformità organizzativa su tutto il territorio nazionale: ogni regione ha il proprio servizio territoriale. Il punto nodale della protesta è che su tutti gli operatori ricade un sovraccarico lavorativo determinato da fattori che rendono sempre meno attrattiva la professione.

Quali sono questi fattori?
Il primo è sicuramente quello organizzativo: i sistemi sono ancora frammentati e poco integrati, sono completamente assenti i filtri che dovrebbero prevenire l’emergenza urgenza. Manca la prevenzione puramente clinica delle patologie, che da anni è stata completamente smantellata. Ma soprattutto manca completamente una prospettiva di presa in carico delle persone per l’assenza strutturale di un’assistenza territoriale. In Italia è sempre e solo stata affidata ai medici di Medicina Generale, che sono liberi professionisti, malamente sostenuti e integrati col sistema. Il Pronto soccorso così diventa l’imbuto: il terminale di qualsiasi patologia. L’85% degli accessi sono inappropriati, quasi nove persone su dieci potrebbero evitare l’ingresso se ci fosse un sistema di pre-filtraggio.

Poi c’è la questione del reale riconoscimento dell’identità professionale dell’Emergenza-Urgenza. È un tema nella formazione, nelle assunzioni e soprattutto nei contratti per rendere più attrattivo il lavoro nei Pronto Soccorsi. Manca il reale riconoscimento dell’identità professionale dell’Emergenza-Urgenza: c’è una specializzazione che è nata di recente che però non dà seguito a una figura professionale riconosciuta, il medico rimane “quello del Pronto Soccorso”. C’è una mancanza di riconoscimento delle competenze professionali.

Come siamo arrivati a questo punto?
Il dramma parte da lontano, e non per un errore nel calcolo degli standard. Dietro c’è una deliberata scelta di smantellare i servizi: vent’anni di blocco dei contratti, riduzione dei contratti di formazione specialistica, blocco di assunzioni e imposizione dei tetti di spesi per il personale sono una scelta. Da inizio millennio si è scelto di smantellare il servizio pubblico a vantaggio del privato e della sanità integrativa. Una logica che non può funzionare per l’Emergenza-Urgenza, spina dorsale della sanità pubblica che rischia sempre più di spezzarsi.

Quindi è anche una questione economica?
Esiste poi un tema contrattuale, sul contratto nazionale manca il riconoscimento per il servizio più sovraccaricato dell’ospedale, che si deve interconnettere con tutti gli specialisti ed è la porta d’ingresso. I mezzi ci sarebbero nei contratti decentrati con le aziende – attraverso la valorizzazione degli incarichi professionali e delle performance e dell’applicazione dei fondi perequativi intramoenia – peccato che quest’ultime non li applichino. Alcune aziende lo attribuiscono – e parliamo di cifre importanti: in alcuni casi sopra i 100mila euro ogni anno – solo tra i medici della Direzione Sanitaria.

Quali sono le responsabilità della politica?
L’anello parte dalla prevenzione sul territorio, la politica dovrebbe fondare l’assistenza territoriale: le cure sul territorio, la presa in carico delle persone, la prevenzione. Il medico di medicina generale, anzi l’equipe, deve essere messo nelle condizioni di prendersi in carico i cittadini, predisponendoli ad evitare il ricorso al pronto soccorso.

Senza scadere nella polemica da bar, queste non sono le responsabilità del medico di base, di famiglia o del territorio?
Non è una responsabilità dei medici di famiglia, ma di chi li rappresenta: il sindacato maggiormente rappresentativo – FIMMG, Federazione Italiana Medici di Medicina Generale – che diffonde una cultura individualista, basata sulla libera professione. Il problema non è delle istanze corporative, non dei singoli medici che, al contrario, vorrebbero essere messi nelle condizioni di lavorare bene, senza passare per “prescrittori di farmaci”. Serve una riforma del sistema che riporti la medicina generale dentro i servizi, e non negli studi privati. Il rapporto professionale dovrebbe essere di dipendenza, la medicina generale non è governabile con la libera professione. Occorrerebbe poi rifondare il filtro del 118, perché diventi un filtro e non un trasporto per l’ospedale. Il senato da tempo discute di questa riforma, supportata tutte le unità scientifiche e dal 99% dei sindacati, per uniformare e integrare questo servizio cruciale. Ad oggi ogni provincia va a sé.

Avete la sensazione di essere passati nel giro di un anno da “eroi” al dimenticatoio?
Assolutamente sì. La manovra all’orizzonte non prevede in termini assoluti veri e propri tagli: il Fondo sanitario nazionale prevede un finanziamento di 2 miliardi aggiuntivi. Il problema è che la fase in cui eravamo considerati eroi di un sistema che finalmente veniva percepito come universale e pubblico, è finita. Con Draghi siamo immediatamente tornati alle politiche neoliberiste che hanno distrutto il sistema. Il governo nel Pnrr sta incentivando finanziamenti al privato: i 2 miliardi del fondo non sono investimenti del pubblico, ma delle Asl o delle Regioni che non avranno personale per reggerli e dunque dovranno esternalizzare. È esattamente quanto accaduto alla Lombardia, col Piano sanitario approvato lo scorso 1 dicembre.

Sempre meno giovani camici scelgono la specializzazione in Medicina d’Urgenza. Esiste una crisi della vocazione?
Purtroppo sì. Le politiche individualiste hanno fatto perdere alla nostra professione la missione pubblica, che non significa statale: pubblica e universalistica significa pensare prima al paziente e non al mercato. La logica del mercato rende il medico prima un professionista e poi un sanitario. Dobbiamo tornare a una logica di servizio pubblico per la tutela della salute.

Stress, sovraccarico e impossibilità di affiancare la libera professione causano fughe o rinunce personali. Quali sono i contraccolpi nella vita privata degli operatori sanitari?
Quelli rimasti per vocazione e per passione lavorano in situazioni disastrose. Fanno 70 ore a settimana contro le 38 per legge, senza retribuzione per giunta, spesso non possono usufruire dei congedi – ieri ho incontrato in pronto soccorso un infermiere a cui è nato il giorno prima il figlio. Siamo il front office dello sfogo dei cittadini, che spesso è anche violento.

Ecco, nel frattempo le violenze contro gli operatori sanitari continuano a dilagare. Come si possono tutelare i pronto soccorso e chi ci lavora?
Una rapporto pre-pandemico stima a 1200 le aggressioni contro operatori della sanità ogni anno, il 30% dei 4mila casi di violenza registrati nei luoghi di lavoro. Il tema è prima di tutto culturale: esiste una denigrazione di tutti i lavoratori pubblico, una cultura che ha avuto il suo acme con il ministro Brunetta. Si è deliberatamente scelto di rendere il lavoratore pubblico un bersaglio, perché l’obiettivo è smantellare i servizi pubblico. Esiste poi un livello organizzativo da risolvere: attese, assenza di filtri e disservizi rendo il pronto soccorso il luogo del libero sfogo di frustrazioni – spesso motivate – dei cittadini.

Non servono misure di polizia o securitarie: un decreto di settembre 2020 ha aggravato le sanzioni contri le aggressioni, ma non basta. Le aziende devono lavorare sulla prevenzione, ma serve altro. Quando la comunicazione e la politica hanno voluto far passare gli operatori sanitari come eroi, le aggressioni si sono ridotte a zero. Evidentemente un’informazione sana sul ruolo degli operatori sanitari potrebbe risolvere il problema.

Per concludere, come si argina la “fuga dal pronto soccorso”. Prima della pandemia mancavano 2mila medici in pronto soccorso, ora ne mancano 4mila. Quali sono le strategie che possono arginare questa emorragia?
I numeri diventano ancora peggiori se allarghiamo all’intero comparto degli operatori sanitari: nel Paese mancano 90mila infermieri. Siamo sotto la media Ocse del rapporto operatori ogni 100mila abitanti: poco sopra il 6, mentre dovrebbero essere oltre 8. Serve una strategia di breve termine e una di lungo termine. Va bene mettere delle toppe con degli interventi provvisori d’urgenza, ma si devono affiancare a interventi di lungo respiro: cioè rendere più fruibile la specializzazione in Emergenza-Urgenza, più attrattiva la professione, un miglioramento delle condizioni e dei luoghi di lavoro. Serviranno almeno 5 anni per formare una classe di nuovi specialisti di Emergenza-Urgenza, quindi al momento stiamo ricorrendo alla valorizzazione degli specializzandi, attraverso i contratti di Formazione Lavoro. Non basta neanche questo: è un semplice tampone. Serve una revisione dei corsi di formazione che consenta l’aumento dei professionisti. La soluzione principale è quella miracolosa prassi che si è interrotta dall’avvento di Berlusconi: i tavoli tecnici di confronto con i professionisti e le rappresentanze sindacali. Nessuno ha la bacchetta magica, ma insieme forse è possibile trovare una soluzione condivisa.