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Come sta il femminismo italiano? Jennifer Guerra: “Le tensioni sono sempre esistite”

FEMMNISMO

Perché questo articolo ti dovrebbe interessare? Il movimento femminista, anche in Italia, non è privo di tensioni interne. In particolare se da un lato si sviluppa un’interpretazione dei moti di rivendicazione sempre più di massa, dall’altro il capitalismo ne trae grossi benefici trasformando il femminismo in un motore per le vendite. Come sta allora il femminismo italiano? Ne abbiamo parlato con Jennifer Guerra, giornalista e scrittrice che si occupa di tematiche femministe e che ha da poco pubblicato “Il femminismo non è un brand” per Einaudi.

C’è un forte sospetto nella diffusione del femminismo come fenomeno mainstream. Credi che questa trasformazione abbia portato alla perdita dell’idea del femminismo come pratica e non come mera checklist da applicare alla perfezione?

Penso che la diffusione del femminismo come fenomeno mainstream abbia portato più vantaggi che svantaggi. Non possiamo negare l’importanza di aver reso il femminismo accessibile per una platea di persone così ampia come non era mai stato in passato. Quello che mi preoccupa, e che è anche l’oggetto del libro, è il fatto che all’interno di questo processo si sono imposti come soggetti o rappresentanti del femminismo delle entità che non sono le persone che praticano il femminismo, come i mercati, le istituzioni, il sistema delle celebrities, o quella che chiamo nel libro economia della visibilità. Questi soggetti hanno una grossa responsabilità nell’aver eliminato la parte pratica e attiva del femminismo, enfatizzando invece tutti quegli aspetti più affini ai loro interessi, che non hanno molto a che fare con il femminismo nella sua idea originaria.

C’è il rischio di appiattire la pratica femminista in una lotta cieca davanti ad alcune categorie di donne? Penso alla femminista che problematizzava gli stupri subiti dalle donne israeliane durante le manifestazioni per l’8 marzo e che è stata allontanata dal corteo. Ma naturalmente gli esempi potrebbero essere molti.

Non sono molto d’accordo con questa visione. Io credo che il femminismo contemporaneo abbia un problema di elitismo, nel senso che c’è l’illusione che il femminismo dell’1% sia di beneficio anche al 99%. L’imporsi di certi gruppi su altri ha a che fare con dinamiche che non credo dipendano tanto da questa “involuzione” del femminismo, ma che siano in qualche modo connaturate ai privilegi che esistono anche al di fuori del femminismo stesso. Penso che nel femminismo le tensioni, anche conflittuali e violente, siano sempre esistite e non dobbiamo pensare che in passato non ci fossero. Basta guardare la storia del femminismo italiano.

In mancanza di una sorta di “femministometro”, come possiamo distinguere tra un’autentica adesione al femminismo e un’adesione motivata da interessi commerciali o di immagine?

Io penso sia importante, quando analizziamo il femminismo egemonico, slegare sempre il femminismo dal personalismo. È un po’ lo stesso discorso che si fa con l’ambientalismo: vogliamo risolvere la crisi climatica come collettività o vogliamo continuare a stigmatizzare i comportamenti individuali? Questo non significa che allora io come singola persona posso continuare a fregarmene del mio impatto ambientale, ma forse il problema non sta tanto nel fatto che non faccio la raccolta differenziata in maniera perfetta, ma che ci sono 100 aziende sono responsabili del 70% delle emissioni globali. Lo stesso ragionamento andrebbe applicato al femminismo: se è vero che da un lato pensare che non esistano dei criteri per definirsi femministe comporta il rischio di rendere tutto femminismo, svuotandolo completamente di significato, dall’altro però la ricerca di comportamenti giusti o sbagliati per definirsi femministe porta inevitabilmente al moralismo e al personalismo. Io non ho motivi di non credere a una persona che si definisce femminista (e a dirla tutta, non vedo nemmeno perché dovrei preoccuparmi della sua coerenza), mentre se a farlo è un’azienda o qualcuno in una posizione di potere, mi riservo di essere più critica.