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Il New York Times ha perso la rotta

Il New York Times ha perso la rotta

Perchè leggere questo articolo? Si avvicinano le presidenziali Usa 2024 e la redazione del New York Times è di nuovo in subbuglio. Con una profonda spaccatura e la nascita di un secondo sindacato che cerca di smarcarsi dall’influente NewsGuild-CWA, militante e politicizzata. Il racconto dell’ex caporedattore Bennet sullo scontro tra woke culture e deontologia professionale ed il futuro del giornalismo

Quale è quel notissimo grande player dell’informazione che da anni è alla prese con un influente sindacato di redazione militante e politicizzato che condiziona le scelte editoriali e contro il quale una parte degli stessi giornalisti ha deciso di smarcarsi creando una nuova associazione autonoma? Sì, Rai è la risposta esatta. Ma non l’unica. Sorpresa (ma non troppo): il New York Times, la testata più autorevole al mondo, sembra essere afflitto dagli stessi problemi del nostro servizio pubblico televisivo.

Cosa sta agitando la redazione del New York Times

Ad agitare gli animi di giornalisti e redattori della Eight Avenue sono gli scontri interni tornati ad esacerbarsi a causa del conflitto israelo-palestinese. Gli iscritti al sindacato unico NewsGuild-CWA hanno cercato di far pubblicare sul giornale una dichiarazione di condanna degli aiuti Usa ad Israele. Di fatto, una presa di posizione favorevole ad Hamas. In precedenza, c’era stata una vivacissima discussione interna alla testata sulla linea da tenere a proposito dei transgender. Beninteso: il tema non era se essere favorevoli o meno alle istanze della comunità Lgbtq+. Il fatto è che la linea ufficiale molto favorevole del New York Times era stata considerata comunque troppo timida dai membri del sindacato.

Due strappi che hanno portato parte della redazione a decidere per una secessione. Con una accusa ben chiara: la NewsGuild-CWA fa ormai ben altro rispetto alla normale negoziazione su contratti di lavoro e stipendi . Ed è divenuta una associazione politica militante. Che per sostenere e diffondere le proprie cause calpesterebbe le più normali regole di deontologia professionale. Proprio quelle per le quali il New York Times è divenuto l’istituzione che è. Un recente articolo di Federico Rampini per il Corriere ricostruisce la crisi esistenziale dell’Old Gray Lady dell’informazione Usa. Preoccupante perchè alla vigilia di elezioni presidenziali in cui il ritorno in campo di Donald Trump potrebbe ulteriormente esacerbare gli animi.

Bennet, il Black Lives Matter e il caso Cotton sul New York Times

E cosa succede quando le logiche della woke culture sono portate all’estremo all’interno di una redazione lo ha raccontato molto bene James Bennet in un lungo (lunghissimo) editoriale pubblicato sull’Economist pochi giorni fa. Chi è è James Bennet? E’ stato per anni giornalista di punta del New York Times ed editorial page editor della testata. Sino all’incidente dell’estate 2020. L’America, segnata dalla pandemia, era scossa anche dalla brutale uccisione di George Floyd e le proteste, anche violente, del movimento Black Lives Matter stavano raggiungendo il loro culmine. Quando Trump propose di usare le armi per riportare l’ordine nelle città, Bennet decise di ospitare nelle pagine dei commenti un intervento del senatore dell’Arkansas Tom Cotton, che spiegava come l’uso dei soldati fosse legittimo, costituzionale e con precedenti storici. Una posizione che Bennet nemmeno condivideva, ma che riteneva comunque giusto ed utile fornire ai lettori. Dentro il New York Times si scatenò il putiferio. Con molti giornalisti del sindacato che attaccarono violentemente Bennet. Ci fu persino chi giunse ad accusarlo di mettere in pericolo l’incolumità fisica dei suoi colleghi afroamericani.

Queste le sue parole: “La mattina presto ricevetti una mail da Sam Dolnick, un cugino di Sulzberger (la famiglia proprietaria del NYT, ndr) e redattore di punta del giornale, che diceva di sentire che noi – ma avrebbe potuto dire io – dovessimo all’intera redazione “delle scuse per aver dato l’impressione di anteporre una idea astratta come un pubblico confronto al valore delle vite e della sicurezza dei nostri colleghi’. Era preoccupato che io e i miei colleghi avessimo non intenzionalmente inviato un messaggio alle altre persone del Times: ‘La vostra integrità come persone e la vostra sicurezza ci interessano meno delle nostre idee'”. Accuse che lasciarono stupefatto Bennet e che non convincevano neppure Suzlberger padre e figlio. Che pure alla fine piegarono la testa al sindacato decidendo per l’espulsione di Bennet dal giornale.

Bennet e l’emergere delle tendenze illiberali all’interno della redazione del New York Times

Oggi che il clima pare tornare quello di quella rovente estate del 2020, le parole di Bennet suonano come un monito che ognuno può facilmente adattare anche alla situazione italiana, pur nelle specificità di contesti che restano distinti. Riportiamo qualche estratto particolarmente significatico del suo editoriale per l’Economist:

“Il problema del Times si è trasformato dall’avere pregiudizi liberali ad avere pregiudizi illiberali, da una tendenza a favorire una delle parti del dibattito nazionale ad un impulso a chiudere del tutto il dibattito. Tutta l’empatia e l’umiltà del mondo non contano nulla contro le pressioni dell’intolleranza e del tribalismo se manca una qualità fondamentale alla quale Sulzberger non ha dato rilievo: il coraggio“.

“Ciò che sembra ancora più sorprendente nella vicenda Cotton è quanto i vertici del giornale non fossero in sintonia con i valori illiberali che stavano emergendo al suo interno. Il saggio di Cotton ha evidenziato divisioni sul ruolo del giornalismo che erano cresciute per anni all’interno del Times, e che i vertici avevano ampiamente evitato”.

“Giornalismo e democrazia funzionano quando non ci si arrende alla paura”

“Il giornalismo dovrebbe mettere sale sulle ferite o lenirle, promuovere dibattiti o risolverli, chiedere o dare risposte? Deve porsi in modo umile o virtuoso? – si chiede Bennet – Da giornalisti formati con quello che era il modello tradizionale, con il vecchio insieme di principi, Sulzberger, Baquet e io abbiamo reagito in modo simile al saggio di Cotton: ecco un’idea potenzialmente significativa da una voce influente. Potrebbe mettere a disagio i lettori, ma dovrebbero comunque esserne messi a conoscenza e valutarla, in parte proprio per queste esatte ragioni. I colleghi del Times che erano spaventati o arrabbiati per l’articolo la vedevano all’opposto: i lettori non avrebbero dovuto conoscere l’argomentazione di Cotton. Esporli ad essa significava rischiare che potessero essere persuasi da un politico eletto”.

Queste le conclusioni di Bennet: “È difficile immaginare un percorso di ritorno verso una politica americana più sana che non passi per un terreno comune di fatti condivisi (…) Forse se il Times riponesse maggiore fiducia nell’intelligenza e nella dignità degli americani, più americani si fiderebbero di nuovo del Times. Il giornalismo, come la democrazia, funziona meglio quando le persone rifiutano di arrendersi alla paura”.