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Tunisia, l’Italia portavoce per ricatto al Fondo Monetario Internazionale

Tunisia, l’Italia portavoce per ricatto al Fondo Monetario Internazionale

Perché questo articolo potrebbe interessarti? A Tunisi mancano i soldi per pagare i sussidi e a breve potrebbero non essere pagati nemmeno gli stipendi. In questo contesto, crescono le partenze verso l’Italia e Roma prova a chiamare a raccolta Europa e Usa per evitare guai peggiori e dare via libera al prestito dell’Fmi.

Prima la pandemia. Poi il crollo dell’industria turistica, che rappresenta il 14% del PIL della Tunisia e fornisce circa 400.000 posti di lavoro, tra diretti e indiretti. Il risultato è che, negli ultimi anni, Tunisi ha pagato un prezzo salatissimo. Secondo i dati raccolti dall’Ufficio nazionale del turismo tunisino nel 2021, l’emergenza sanitaria avrebbe causato  alla Tunisia quasi 1.5 miliardi di euro di perdite legate settore. Il resto è storia attuale, con il Paese alle prese con una profonda crisi economica e diventato un punto di partenza sempre più importante per i migranti che tentano di raggiungere l’Europa via mare.

Ed è per questo che l’Italia ha chiesto a gran voce una strategia globale per affrontare l’instabilità tunisina, per altro aggravata da altri due fattori: l’aumento dell’inflazione e la guerra in Ucraina. Roma sostiene la necessità che Unione europea, Nazioni Unite e, soprattutto, Fondo monetario internazionale attuino misure a lungo termine per stabilizzare la Tunisia.

Dall’altro lato, il governo tunisino era riuscito a raggiungere un accordo con l’FMI a metà ottobre per un pacchetto di quasi 2 miliardi di dollari. Alla fine il Fondo ha però ritardato l’approvazione del maxi prestito. Il motivo? Non è chiarissimo.  L’ipotesi più probabile: la mancata pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Legge finanziaria per il 2023. Contenente, tra l’altro, anche le riforme, impopolari, richieste dall’FMI a garanzia del prestito, come la progressiva revoca delle sovvenzioni per i prodotti di base.

Com’è scoppiata la crisi in Tunisia

Il Paese nordafricano è sempre stato considerato come un modello per gli altri attori della regione. È qui che ha attecchito la primavera araba nel 2011 ed è qui che si è sviluppata la prima vera democrazia multipartitica del mondo arabo. Qualcosa però è andato storto. Per la verità, le proteste del 2011 sono esplose non soltanto per via della richiesta di maggiore democrazia, ma anche (se non soprattutto) per le delicate condizioni economiche. Condizioni mai migliorate da 12 anni a questa parte.

I governi post primavera araba non hanno avuto la forza necessaria per imprimere decise linee politiche e altrettante decise riforme. Condizionati dal frazionamento politico emerso nei nuovi parlamenti, nessun presidente e nessun premier ha inciso in modo significativo sulla vita sociale ed economica della Tunisia. È per questo che nel 2019 l’elettorato si è rivolto a Kais Saied. Una volta eletto presidente, l’ex professore costituzionalista ha lasciato intendere di voler mettere fine a governi e parlamenti fragili. Tradotto in altre parole, Saied ha congelato la democrazia parlamentare varando riforme costituzionali di chiaro stampo presidenzialista.

Il Covid prima e la guerra in Ucraina poi, non hanno dato possibilità a Saied di pianificare una chiara linea politica. Tra un’emergenza e un’altra, il Paese si è ritrovato con i prezzi di farina e pane ai massimi livelli, senza adeguate scorte di generi di prima necessità e con un’inflazione dai numeri a due cifre in termini percentuali. Le famiglie già provate dalla cronica crisi tunisina, oggi sono definitivamente entrate in una fascia di povertà assoluta. E la situazione è ben lungi dal vedere significativi sbocchi.

Roma “megafono” di Tunisi

Ecco perché la Tunisia ha un disperato bisogno di soldi. Il governo rischia di non poter pagare né stipendi e né sussidi già nei prossimi mesi. Il piano concordato con l’Fmi a ottobre potrebbe riavviare la macchina economica, ma stenta a decollare. Ad avanzare invece è soltanto il numero di persone che si imbarcano dalle coste tunisine per andare altrove. Ma, stando ai dati del ministero dell’Interno italiano, chi parte dalla Tunisia solo in minima parte è cittadino tunisino. Su 15.000 migranti sbarcati in Italia dal Paese nordafricano nel 2023, sono meno di 2.000 i tunisini. Segno di come in realtà a partire sono migranti subsahariani. Gli stessi contro cui Saied ha promesso un giro di vite nei giorni scorsi per rimpatriarli.

Da qui un dubbio che sta attraversando nelle ultime settimane i corridoi diplomatici: possibile che Tunisi con la nuova ondata migratoria voglia attirare l’attenzione? Del resto, l’aumento di sbarchi sta creando grattacapi all’Italia. Ed è proprio a Roma che Tunisi si è rivolta per convincere il resto del mondo a sbloccare i fondi a proprio favore.

Il governo italiano dal canto suo, sembra aver compreso e accettato. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, nei giorni scorsi ha parlato di Tunisia con il segretario di Stato Usa, Antony Blinken. Nei giorni precedenti, ha annunciato lo sblocco di 110 milioni di Euro da destinare alle piccole e medie imprese tunisine. Infine, si è rivolto all’Europa affinché il dossier tunisino venga preso in considerazione, agevolando di fatto la visita del commissario Paolo Gentiloni a Tunisi.

Chiara quindi la posizione dell’Italia: se fallisce la Tunisia, i problemi non saranno solo italiani, ma dell’intera regione euromediterranea. Prima si interviene, secondo la visione di Palazzo Chigi, prima si evitano sciagure ben maggiori. Ma la strada è tutt’altro che in discesa.

Come lavora l’FMI

Se, da un lato, la Tunisia ha bisogno di denaro fresco per evitare il collasso, dall’altro lato le autorità sanno che accettare il salvagente dell’FMI implicherebbe effettuare riforme, come detto, impopolari. Giusto per fare alcuni esempi: le riduzioni dei sussidi per il carburante, l’emanazione di una legge sulle società pubbliche e altre riforme richieste dal Fondo, che trovano l’opposizione di ampi strati della popolazione.

In ogni caso, possiamo considerare l’FMI una sorta di “prestatore di ultima istanza“. In tempi di crisi, i Paesi si rivolgono al Fondo per ottenere assistenza finanziaria. Il primo prestito fu richiesto dalla Francia nel 1947. L’approccio dell’FMI per la risoluzione delle crisi nel frattempo non è cambiato. Questo organismo mira teoricamente a creare le condizioni iniziali per la ripresa economica del Paese interessato. Così da consentirgli il nuovo accesso ai mercati finanziari.

Tra i tanti interventi dell’FMI citiamo alcuni episodi degni di nota. Nel 1997 il Fondo ha prestato 150 miliardi di dollari al Sud-est Asiatico. Nel 1998 Russia e Brasile ricevettero una quarantina di miliardi ciascuno. Due anni più tardi la Turchia ne ha ottenuti 11. Infine, in tempi più recenti, l’Argentina ha incassato il via libera per due maxi prestiti, nel 2000 e nel 2018, dal valore rispettivamente di 21,6 e 57,1 miliardi di dollari. Nel 2012, infine, la Grecia ha ottenuto 30 miliardi. Arriverà presto il turno della Tunisia? Difficile a dirsi: il problema di fondo sta nel fatto che l’Fmi, prima di erogare prestiti, chiede importanti riforme spesso poco digeribili da governi e società. E Tunisi, in tal senso, non fa eccezione.

Articolo a cura di Mauro Indelicato e Federico Giuliani