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Donne e violenza: il reddito di libertà una misura a metà

Donne e violenza: il reddito di libertà una misura a metà

Perchè leggere questo articolo? Reddito di libertà per le donne vittime di violenza? Per le operatrici del Centro Antiviolenza Cadmi, interpellate da true-news.it, “è una buona idea ma applicata male. Il cui meccanismo farraginoso non agevola chi si trova in difficoltà. Servono più fondi e misure strutturate”. L’intervista

Si chiama reddito di libertà ed è “una misura a metà”. Quello che dovrebbe rappresentare un primo passo concreto verso la salvezza per le donne vittime di violenza familiare, risulta essere invece solo una piccola goccia in un oceano. Una buona idea, applicata male. Solo 400 euro al mese per un anno infatti non bastano per cambiare vita. A tanto corrisponde il sussidio per favorire l’indipendenza economica e, di conseguenza, il reinserimento sociale delle vittime. Già attivo nel 2023, la legge di bilancio lo ha confermato, stanziando 10 milioni di euro l’anno in più per il triennio 2024-2026. Ad oggi, è stato richiesto da quasi 3mila donne che hanno subito maltrattamenti e si trovano in condizioni di vulnerabilità economica. Ma poche di loro, di fatto, ne stanno già beneficiando. A confermarlo sono le operatrici di accoglienza Lorena Pais e Cristina Barbieri, interpellate da true-news.it insieme a Cristina Carelli, coordinatrice generale della Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano (Cadmi), il primo Centro Antiviolenza nato in Italia. Secondo le quali il reddito di libertà è “una buona dichiarazione d’intenti, smentita però dai fatti. E da un meccanismo farraginoso che non agevola le donne in difficoltà”.


Cosa rappresenta l’introduzione del reddito di libertà per le donne vittime di violenza?

Il reddito di libertà è una buona idea a metà, applicata male. In quanto Centro Antiviolenza, Cadmi ha sempre sostenuto l’importanza e la necessità di mettere a disposizione per le donne vittime di abusi risorse economiche per sottrarsi alla violenza. Ma questo strumento è molto deficitario. Sia per le lungaggini burocratiche che comporta, sia perché costituisce un aiuto veramente minimo. Quattrocento euro al mese infatti non sono sufficienti per raggiungere l’indipendenza economica. Possono solo essere un’integrazione. Perciò riteniamo che questa misura sia soltanto una piccola goccia nel mare. Una buona dichiarazione d’intenti, smentita però dai fatti.

Per ricostruirsi una vita, 400 euro non bastano dunque. Cosa servirebbe invece per offrire un sostegno concreto a chi vuole uscire da una vita di violenza e reinserirsi in società?

Serve innanzitutto un’attenta valutazione dei reali bisogni delle donne, trovando una misura adeguata che sia strutturata e non emergenziale. Perché, purtroppo, la violenza di genere è un problema radicato. C’è assolutamente bisogno di una politica seria sul lavoro e sulla casa, incrementando i servizi e i fondi per sostenere tutto ciò di cui ha bisogno una famiglia e una donna. Per le vittime di violenza domestica questa necessità è accentuata perché la loro rete sociale ed economica risulta impoverita. Inoltre, queste donne si trovano ad affrontare un percorso difficile, costellato di complicanze emotive, legali ed economiche.

Qual è la cosa che più manca da parte delle istituzioni nei confronti di questa causa?

Mancano supporti economici seri e chiarezza. C’è insufficienza di fondi e macchinosità per ottenerli. Che testimoniano un intento a metà di risolvere il problema. Si dovrebbe lavorare molto di più sul diritto al lavoro e sui supporti concreti per le vittime di abusi. Le istituzioni dovrebbero fare quello in cui si impegnano quotidianamente Cadmi e tutti gli altri Centri Antiviolenza diffusi nel territorio italiano. La nostra mission è mettere in primo piano la vita delle donne in difficoltà, offrendo loro accoglienza e progettualità, con attenzione e ascolto. Reperendo anche fondi che assicurino un sostegno adeguato per ricominciare una vita finalmente libera dalla violenza.

Ad oggi ad aver fatto richiesta del reddito di libertà sono state quasi 3mila donne. Di cui 469 dalla Lombardia. Ma ad averne bisogno potrebbero essere molte di più?

Assolutamente sì. La platea che ne avrebbe bisogno è veramente molto vasta. Basti pensare che delle seicento donne seguite da Cadmi, il 44% sono disoccupate. Il restante 56%, invece, dispone di un lavoro, ma solo il 20% di queste è indipendente a livello economico e può sostenere tutte le spese a carico. Molte vittime di violenza si trovano dunque in condizioni di necessità, ma la poca chiarezza, la lentezza dovuta all’eccessiva burocrazia e la mancanza di fondi contribuiscono a far desistere dal richiedere tale sussidio. Abbiamo toccato con mano il problema: delle cinquanta donne da noi accompagnate nel percorso per usufruire del reddito di libertà, solo il 10% l’ha effettivamente ottenuto.

La procedura per richiedere questo sussidio quindi non è immediata?

Per niente. Anzi, è un meccanismo farraginoso, lento e poco chiaro. Per l’accesso a questo aiuto, infatti, la richiedente deve essersi rivolta a un Centro Antiviolenza, in quanto la domanda prevede una dichiarazione del responsabile legale del centro per attestare il percorso di emancipazione e autonomia intrapreso. A cui si aggiunge poi una dichiarazione dei servizi sociali del Comune di residenza, che attesta lo stato di bisogno oggettivo della richiedente. Una procedura non adatta né nei fatti, né nelle intenzioni. Un modello tecnicistico che tende a scollare dalla relazione col Centro Antiviolenza. E che evidentemente presenta un’eccessiva e inutile burocrazia, aggiungendo figure come quella dell’assistente sociale che rallentano tutto il processo.

Come potrebbe essere migliorata secondo voi?

Basterebbe solamente l’intervento e la dichiarazione del Centro Antiviolenza, che ha già a disposizione tutte le informazioni necessarie e conosce perfettamente lo stato effettivo delle condizioni di ogni donna – lavoro, reddito, abitazione e storia pregressa compresi. Sarebbe un’operazione più efficace e rapida dunque, che riconoscerebbe anche il valore del ruolo del centro.

La violenza ha molte forme, e tra queste c’è anche quella economica. Quante sono le donne che la subiscono e che si rivolgono a voi?


Circa il 70% delle donne seguite da Cadmi vive almeno una delle tante forme di violenza economica. Che è uno dei soprusi maggiormente agiti, ma più difficili da riconoscere. La violenza economica passa, ad esempio, attraverso l’apertura di un conto corrente intestato solo all’uomo. Ci sono donne a cui il lavoro viene impedito o che vengono controllate negli acquisti. Ad altre, invece, è stata fatta confluire la propria eredità nell’acquisto di una casa di cui solamente il marito è proprietario. Inoltre, ci sono uomini che in fase di separazione coniugale svuotano il conto corrente o nascondono la maggior parte del proprio guadagno per danneggiare le loro compagne, che spesso si trovano già in situazioni difficili con lavori precari o in nero. Questi sono solo alcuni dei casi che testimoniano come la mancanza di indipendenza economica relega la donna in una condizione di difetto, sudditanza e ricatto. In generale, però, viviamo in un Paese che legittima la violenza economica per modello culturale, vista la grande e persistente differenza salariale tra maschi e femmine.

Il ritorno all’autonomia e il reinserimento sociale delle vittime di violenza passa anche dalla casa. In questo senso la Lombardia sembra muoversi in prima linea, ad esempio col progetto di Aler che assegna una serie di appartamenti a queste donne. Voi di Cadmi cosa ci potete dire di più?

Sappiamo ciò che le donne ci raccontano. E quello che dicono è che una casa Aler è molto ambita in quanto economicamente sostenibile, ma non è per niente facile ottenerla. E spesso ci sono donne che non possono attendere e rischiare di ritornare a casa dai propri aguzzini. Inoltre, se si trovano in una situazione debitoria vengono comunque iscritte ad una sorta di black list, nonostante l’insolvenza sia conseguenza della violenza. Inoltre, il meccanismo di assegnazione degli appartamenti non è ottimale e relega tutte le responsabilità ed eventuali aggravi fiscali ai Centri Antiviolenza. Secondo noi, la Regione avrebbe dovuto assegnare le residenze direttamente alle donne, senza passaggi intermedi e deleghe di responsabilità. Anche in questo caso ci sono state le buone intenzioni, ma non i fatti.


Il reddito di libertà apre le porte ad un altro aiuto economico per le donne vittime di violenza, pur non essendo destinato direttamente a loro. Si tratta di un bonus per i datori di lavoro che assumono le titolari del sussidio. Cosa ne pensate?

Questo bonus è una misura positiva, ma in realtà non dovrebbe esserci un premio per chi assume le donne vittime di maltrattamenti. Il lavoro è un diritto per tutti, anche per loro dunque. Serve una politica del lavoro più coerente e inclusiva.

Cosa rispondete alla proposta di legge firmata da Maddalena Morgante di Fratelli d’Italia che prevede l’inserimento lavorativo e la conservazione del posto di lavoro delle vittime di violenza solo se “presentano deformazioni o sfregi permanenti del viso”?

Questa sgradevole affermazione parla da sé. E testimonia un’idea stereotipata della violenza e dei suoi effetti. La violenza è multiforme, può essere invisibile e non immediatamente riconosciuta. Come quella psicologica o quella economica. È evidente che per una politica seria sulla violenza sulle donne c’è ancora molta strada da fare.