Home Esclusiva True Il doppio fallimento di Israele e Hamas e la morte politica di Netanyahu

Il doppio fallimento di Israele e Hamas e la morte politica di Netanyahu

Il doppio fallimento di Israele e Hamas e la morte politica di Netanyahu

Perchè leggere questo articolo? Per Fulvio Scaglione (InsideOver) gli attuali tardivi negoziati sono la prova che sia Israele che Hamas hanno capito di essere finiti in un vicolo cieco. “Netanyahu? Politicamente un morto che cammina”. L’intervista

È notizia di questi giorni la dichiarazione da parte di Ali Khamenei, leader supremo dell’Iran, a supporto alle proteste esplose allo UCLA Campus in California. Proteste che vedono come protagonisti studenti e giovani in disaccordo con il sostegno politico-militare statunitense ad Israele, ma soprattutto alla linea dura scelta da Netanyahu a Gaza contro Hamas, attualmente alle prese con un negoziato che è una vera e propria corsa contro il tempo, data la rapidità con cui gli ostaggi israeliani sono stati decimati parallelamente alla carneficina di civili palestinesi. Una soluzione disastrosa quella che potrebbe risultare da un definitivo cessato il fuoco, data una Striscia di Gaza quasi completamente rasa al suolo senza che Hamas sia stata davvero neutralizzata sommata alla fine politica quasi certa di Netanyahu, ormai abbandonato anche dall’amministrazione Biden e dallo stesso Trump, entrambi in corsa verso le prossime elezioni.

Per analizzare la complessa e tragica vicenda del conflitto mediorientale scoppiato il 7 ottobre 2023, ormai alle soglie dei cinque mesi di combattimenti, abbiamo interpellato Fulvio Scaglione, direttore responsabile del quotidiano online di politica internazionale InsideOver, già direttore di Famiglia Cristiana, nonché storico inviato di guerra e profondo conoscitore delle dinamiche politiche del Medioriente. Teatro, quello mediorientale, che per altro andrebbe ribattezzato dalla vulgata come Vicino Oriente, essendo ciò che accade dall’altra sponda del Mediterraneo di estremo interesse per il nostro Paese, ovvero l’Italia, il cui governo – in particolare tramite i ministri della Difesa Guido Crosetto e degli Esteri Antonio Tajani – è al lavoro per contribuire ai negoziati in corso tra Israele ed Hamas, essendo il Libano uno dei teatri di maggiore concentrazione di militari italiani, inquadrati nelle missioni internazionali di pace UNIFIL e UNIBIL. Al riguardo il ministro della Difesa Crosetto, circa una settimana fa, avrebbe dichiarato sia già stato predisposto un piano di evacuazione per le truppe italiane di stanza in Libano qualora la situazione peggiori e si estenda sino a Beirut.

Quanto è probabile questo scenario?

Penso che né Israele, né Hezbollah per conto dell’Iran abbiano mai avuto l’intenzione di buttarsi in un conflitto aperto. Hezbollah può vantare come risultato quello di aver apportato un certo numero di colpi, ma soprattutto di aver costretto all’evacuazione una parte della popolazione israeliana che viveva nel nord e che ovviamente è un elemento di disturbo per il governo Netanyahu – e infatti Israele ha sempre risposto colpo su colpo – ma che Hezbollah possa dichiarare guerra a Israele da un paese in difficoltà come il Libano mi è sempre sembrato irreale e viceversa che Israele avesse intenzione di tornare a invadere Beirut come in anni passati con la crisi di Gaza in corso, anche mi sembra piuttosto difficile, quindi certo: è giusto fare come ha fatto il ministro Crosetto, dunque fare delle ipotesi, tracciare degli scenari per sapere come reagire in caso di emergenza, ma non credo si prospetterà l’eventualità di portar via in fretta e furia i nostri soldati.

Il ministro Tajani qualche giorno fa ha dichiarato alla stampa che i negoziati per un cessate il fuoco tra Hamas e Israele sono ad un punto di svolta. È proprio così secondo lei, oppure il conflitto rischia di allargarsi ulteriormente?

Non ho mai creduto realmente alla possibilità che il conflitto potesse allargarsi fuori dalla Striscia. Allo stesso tempo, però, mi pare di capire che siamo davvero in un momento potenzialmente decisivo. Ad ogni modo registro soprattutto che questi negoziati emergono solo ad un punto in cui le due parti, probabilmente, hanno cominciato a rendersi conto di essersi infilate in un vicolo cieco, perché inizialmente gli ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi di Hamas erano centotrentatre. Ad oggi tutte le fonti concordano sul fatto che ne siano rimasti una trentina: c’è chi dice trentatre, chi dice trentasei, ma insomma, la gran parte degli ostaggi che erano stati catturati il 7 ottobre è morta. Quello che sta succedendo è che sia Hamas, sia Israele vedono avvicinarsi una soluzione disastrosa, perché qualche altra settimana di combattimento e degli ostaggi non ne rimarrà neanche uno. Dal lato di Hamas questo significa perdere completamente una leva negoziale che è stata molto importante sin’ora e dal lato di Israele – e di Netanyahu soprattutto – con quale faccia questo Primo Ministro che si è lanciato in un’avventura militare allucinante, disastrosa, può presentarsi e riferire ai propri cittadini che del centinaio di ostaggi non se ne sia salvato neanche uno? Quindi io credo che una buona parte dello spirito negoziale che le due parti sembrano aver improvvisamente scoperto, sia dovuto al fatto che si avvicina il momento in cui entrambi gli schieramenti, dovranno dichiarare il più totale fallimento della loro strategia. Aggiungerei anche un altro elemento: il mediatore per eccellenza, il Qatar – peraltro mediatore di tante crisi negli ultimi anni, pensiamo alla mediazione che questo paese ha svolto tra gli americani e i talebani a proposito dell’Afghanistan – non si è mostrato, per quanto riguarda la crisi di Gaza, una parte abbastanza terza. Non dobbiamo dimenticare che il Qatar è un grande sostenitore della Fratellanza Musulmana di cui Hamas in fin dei conti è un’espressione seppur indiretta. Quindi, la palla è passata nelle mani dell’Egitto che ha ottime ragioni per darsi da fare sul lato diplomatico, perché la crisi di Gaza e di Rafah è a ridosso del proprio confine territoriale, perché già centomila palestinesi dalla Striscia si sono riversati in Egitto. Se Israele attaccasse effettivamente Rafah, rischierebbe di crearsi un’onda di profughi che dalla Striscia cercherebbe di fuggire verso Il Cairo. A Rafah ci sono quasi un milione e trecento mila persone e il paese in questione vive una fase di enorme difficoltà ed instabilità politico-economica.

Le crede che Netanyahu abbia le ore contate? E una sua eventuale deposizione in quali termini contribuirebbe, eventualmente, a trovare una soluzione al conflitto?

Netanyahu da un punto di vista politico è palesemente un morto che cammina, ma in questo momento, con la crisi ancora aperta, non credo che in Israele ci sia nessuno che voglia fare a gara per andare a prendere il suo posto, adesso. Quando questa crisi sarà chiusa, in un modo o nell’altro, allora certamente tutte le partite si riapriranno e mi pare piuttosto evidente che Netanyahu sia stato abbondantemente scaricato dai suoi protettori americani. Biden su Israele rischia di perdere il voto dei giovani e delle minoranze tout court, non solo di quella mediorientale che vive negli Stati Uniti, che vedono nei palestinesi una minoranza oppressa. In questa crisi il Presidente in carica alla Casa Bianca ha cercato, però, di far passare il messaggio che lui non avrebbe infine abbandonato Israele, nonostante le critiche da parte sua verso Netanyahu. Adesso anche Trump ha scaricato Bibi, nonostante nei primi mesi di questa crisi abbia sempre appoggiato il suo operato senza se e senza ma. Ultimamente, però, vedendo nelle difficoltà di Biden un’opportunità elettorale, ha cominciato a criticare anch’egli lo stesso Netanyahu. All’interno di Israele sappiamo peraltro esserci una consistente – e secondo gli ultimi sondaggi maggioritaria – anche se non schiacciante, proporzione della popolazione che lo vorrebbe al di fuori della guida del governo. Netanyahu è morto politicamente, è andato, finito e d’altra parte questa impresa di Gaza dimostra tutta la sua stoltezza sia politica sia strategica, perché è chiarissimo che al di là del decimare i palestinesi della Striscia, il suo obiettivo di sradicare Hamas non verrà raggiunto. Tutti gli ultimi sondaggi, tra l’altro, ci dicono che unito allo sprofondo di al-Fatah e di Abu-Mazen – che si sono rivelati due elementi totalmente ininfluenti nel corso di questa crisi – Hamas resta comunque, nonostante la perdita consenso, l’ipotesi che i palestinesi maggioritariamente sceglierebbero per un futuro governo della Striscia, quindi il fallimento di Netanyahu è totale.

Sul New York Times già da molto prima la lobby ebraica statunitense si esprimeva contraria alle politiche assertive e anti-arabe di Netanyahu. Oggi che tipo di pressione viene esercitata sull’amministrazione Biden da questo gruppo sociale?

Ci sono naturalmente tra gli ebei americani fronti oltranzisti molto influenti e molto potenti, però è stato abbastanza clamoroso il fatto che Chuck Schumer, leader della maggioranza in Senato sia intervenuto per dire che lui si sentiva di parlare a nome della comunità degli ebrei americani nell’affermare che quello che succedeva a Gaza non andava bene e che in Israele fossero necessarie nuove elezioni. Schumer rappresenta la stessa comunità in cui si muove per esempio il genero di Trump, Kushner. Quindi io credo che la comunità ebraica americana sia in questo momento divisa, e divisa nel senso che ovviamente il supporto per Israele non può e non potrà mai venire meno, però certamente ci sono anche molti esponenti della comunità ebraica americana che conservano la lucidità e capiscono che questo avventurismo di Netanyahu è veramente deleterio per lo stesso Israele.

Quindi sembra non essere finito il tempo per Israele di un incrollabile sostegno da parte USA. Ad ogni modo, qualora questo venisse meno, come minacciato di recente dall’amministrazione USA sulla questione di Rafah, come verrebbero influenzati gli Accordi di Abramo?

Io credo che gli Stati Uniti non smetteranno mai di sostenere Israele, perché questo è per loro una piattaforma strategica in Medioriente. Non a caso gli Stati Uniti per decenni hanno coperto senza se e senza ma le politiche di tutti i governi israeliani, nessuno escluso, fondamentalmente basate sull’esproprio dei territori palestinesi, sull’aumento degli insediamenti illegali, sulla crescita della popolazione in questi insediamenti illegali. Adesso il dieci per cento di tutta la popolazione di Israele vive lì, di fatto rendendo impossibile la soluzione dei “due popoli due stati”. Gli Stati Uniti hanno coperto questa politica in ogni modo; non ultimo il fatto di aver bloccato tutte le risoluzioni dell’ONU sul tema Israele dal 1972 fino a oggi, tranne una delle ultime, quella sul cessate il fuoco in cui si sono astenuti lasciandola quindi passare al Consiglio di Sicurezza, ma poi dicendo che questo invito al cessate il fuoco da parte delle NU non fosse vincolante, quindi lasciando a Netanyahu la facoltà di decidere se si cessava il fuoco o meno. Quindi, l’attuale imbarazzo della Casa Bianca deriva dal fatto che Blinken, quando va a Davos al forum economico internazionale e dice che l’unica soluzione anche per la sicurezza di Israele è quella di due popoli e due Stati, in realtà sia dimentico del fatto che Washington abbia sempre professato e praticato esattamente il contrario, ovvero tutto quello che andava contro la soluzione di due popoli e due Stati. Quindi adesso dovrebbero cambiare radicalmente politica, cosa che non faranno, ma a parte questo, il cosiddetto “piano Biden”, di cui si discute in questi giorni e che presupporrebbe il completamento degli accordi tra i Paesi arabi e Israele, non è altro che la maniera di Biden di dire “accordi di Abramo”. L’impalcatura degli accordi in questione voluti da Donald Trump e Jared Kushner nel 2020 prevedevano la creazione di uno stato di Palestina che era praticamente una farsa: una specie di riserva indiana senza poteri, senza forze armate, praticamente senza nulla, alla totale mercé di Israele, mantenuta in sostanza dai soldi delle petromonarchie del Golfo Persico. Il piano Biden non è che sia poi molto diverso. Dal lato palestinese, però, quando si parla di Palestina si fa riferimento ai confini del 1967, quindi inclusa Gerusalemme est con gli insediamenti di cui già si accennava in precedenza. Evidentemente tutto questo, allo stato delle cose, è impossibile da realizzarsi, anche perché ci si chiede dove sposterebbe Israele quel dieci per cento di popolazione che ha insediato in casa dei palestinesi. È anche vero che allo stato attuale dei fatti, per quanto sia criticabilissimo dal punto di vista palestinese, però, l’impianto degli accordi di Abramo è l’unico che preveda uno stato palestinese. Altre soluzioni per il momento sul tavolo non ce ne sono.

Le proteste pro-Palestina degli studenti in California e in Europa che direzione potranno prendere in futuro?

Credo che le proteste americane verranno stroncate. Come possiamo osservare non è che si vada giù molto leggeri. Polizia nel campus, arresti, espulsione dalle università, alla faccia della tanto conclamata difesa delle diversità delle opinioni. D’altra parte il discorso su Israele, è completamente viziato da una tendenza che si registra peraltro anche in altri campi, come in Russia e in Ucraina. Per cui, chiunque dissenta dalla posizione ufficiale viene immediatamente accusato di essere un complice di Hamas o un antisemita, esattamente come per l’Ucraina si venga immediatamente definiti putiniani qualora si vada a dissentire con la versione che va per la maggiore. L’Europa è francamente poco significativa, non è un teatro in cui si decidono delle cose. Si fanno battaglie ideali per cui Bruxelles o non dice niente o dice talmente tante cose che alla fine non contano nulla. Abbiamo il Presidente della Commissione Europea Von Der Leyen a cui vanno benissimo tutte le scelte di Israele e poi abbiamo il rappresentante PESC della stessa Unione Europea, Josep Borrell che ha una posizione diametralmente opposta. È ovvio che questo alla fine non produce decisioni, non produce movimento, non produce nulla.