Home Politics Geopolitics Biden lancia i raid in Siria e Iraq: la strategia Usa e la “linea rossa” iraniana

Biden lancia i raid in Siria e Iraq: la strategia Usa e la “linea rossa” iraniana

Biden lancia i raid in Siria e Iraq: la strategia Usa e la "linea rossa" iraniana

Nella notte gli Stati Uniti, sostenuti dalla Giordania, hanno effettuato su ordine del presidente Joe Biden raid su 85 obiettivi della galassia delle forze sciite legate all’Iran in Iraq e Siria. Una conferma della strategia “reattiva” che vede gli Stati Uniti coinvolti nel caos regionale del Medio Oriente accelerato dagli attacchi di Hamas a Israele del 7 ottobre scorso in maniera articolata ma senza la chiara volontà di prendere in mano le redini del gioco. Il ricordo del pantano iracheno e del disastro afghano è ancora vivido nella mente degli Stati Uniti. E così la strategia di Joe Biden è quella di fissare, sul campo, “linee rosse” diplomatiche, politiche e, quando serve, militari. Lo abbiamo visto l’11 gennaio scorso con i raid contro gli Houthi in Yemen, lo vediamo ora con gli attacchi in Siria e Iraq.

I nuovi strike Usa in Medio Oriente

La dimostrazione di forze non è stata secondaria. Dopo l’attacco che ha ucciso tre soldati americani in Giordania domenica scorsa, Biden ha ordinato di colpire la Forza Quds, l’unità dei Guardiani della Rivoluzione iraniani che fu comandata fino alla morte da Qasem Soleimani e rappresenta il braccio armato dei pasdaran in Iraq e Siria, assieme alle postazioni, ai depositi di armi e alle basi logistiche della milizia irachena Kataib Hezbollah, appoggiata dall’Iran. Droni e missili si sono affiancati all’uso strategico dei bombardieri a lunghissimo raggio B1, decollati direttamente dal Texas per evitare di coinvolgere Paesi alleati nella possibile reazione.

 Charles Lister, Senior Fellow del Middle East Institute, ha scritto sul suo profilo X che i raid notturni “sono stati molto più grandi di qualsiasi azione intrapresa prima contro gli alleati dell’Iran” nella regione. La mossa di Biden e del Pentagono mostra chiaramente che gli Usa hanno stabilito, dallo Yemen all’Iraq passando per la Siria, una chiara linea rossa, su due fronti. Da un lato, non accetteranno incursioni rivolte nei loro confronti da qualsiasi attore voglia disturbare il traffico delle navi occidentali o colpire personale americano nella regione e non hanno intenzione di mollare la presa dalla Siria e dall’Iraq, ove mantengono assetti militari. Dall’altro, i confini iraniani sono le loro colonne d’Ercole. Il non plus ultra di Washington.

Le mosse di Biden

Biden, come avevamo scritto, non ha intenzione a un confronto diretto con l’Iran. La sfida a Teheran è un invito alla Repubblica Islamica a non cercare di approfittare eccessivamente del vuoto di potere in Medio Oriente. Ma gli Usa sanno che nel governo di Teheran c’è una componente di falchi che spinge per un’escalation del confronto con gli Usa. E dopo il 7 ottobre, con Israele ferito e impantanato a Gaza, questa componente ha preso vigore. Ma le incognite di un conflitto con l’Iran sarebbero enormi, specie in un anno elettorale.

In un certo senso, con i potenti attacchi alla proiezione iraniana gli Usa accettano la strategia di proiezione del loro rivale, che con Houthi, Kataib Hezbollah, Quds e Hezbollah libanesi ha creato una galassia di forze che non hanno il telecomando per le loro azioni a Teheran, ma da essa dipendono per armi, sostegno politico e spinta ideologica. Quella “Mezzaluna Sciita” di cui si è a lungo parlato è diventata la difesa in profondità di Teheran.

L’ex capo dell’MI6: “Peso dell’escalation sulle spalle dell’America”

“Ogni milizia ha la propria identità e un certo grado di autonomia”, ha scritto sul Financial Times John Sawers, già capo dell’MI6 britannico e ambasciatore di Londra all’Onu. “Milizie come Kataib Hizbollah, parte del gruppo ombrello accusato da Washington per l’attacco dei droni che ha ucciso tre soldati statunitensi, nutrono un’animus contro l’America: il loro leader, Abu Mahdi al-Muhandis, è stato ucciso nell’attacco statunitense del 2020 che assassinato Qassem Soleimani, il leader della Forza Qods”, ha spiegato Sawers.

L’ex capo delle spie di Sua Maestà ha aggiunto che l’Iran è in ottimi rapporti con questi proxy di vario tipo. Ma al contempo “tenerli a debita distanza consente all’Iran di negare la responsabilità diretta. Ciò scarica il peso dell’escalation sulle spalle dell’America” e distogliere Washington dall’agire laddove sarebbe più doloroso per Teheran. Ovvero sul fronte della stabilità interna del regime degli Ayatollah.

Per gli Usa il sentiero è stretto e negli attacchi di stanotte emerge più la forza dei vincoli che frenano raid a tutto campo che l’imponenza degli assetti messi in campo. Anche nei territori di Siria e, soprattutto, Iraq, del resto, gli Usa hanno l’obiettivo di legittimare la loro presenza boots on the ground. Nel Paese governato da Bashar al-Assad, ovviamente, le truppe Usa a Est sono considerate abusive dal governo di Damasco. A Baghdad, invece, è odi et amo. Il governo iracheno ha apprezzato il ruolo Usa nella lotta all’Isis. Ma al contempo non vuole che il Paese, che ha un rapporto complesso con l’Iran, diventi un poligono della guerra per procura tra Washington e Teheran. 

Il sentiero stretto di Biden

Baghdad ha espresso formalmente più volte il desiderio di assistere al ritiro di ogni forza straniera dal suo territorio. A partire da quelle Usa.  “L’amministrazione Biden cercherà di rimanere in Iraq con piccole modifiche al suo accordo con il governo. Biden non vorrà ritirarsi, certamente non prima delle elezioni di novembre”, ha dichiarato a National Interest Joshua Landis, politologo  dell’Università dell’Oklahoma.

Per Landis “l’uccisione di Mushtaq Talib Al-Saedi – un alto comandante della Dodicesima Brigata delle Forze di Mobilitazione Popolare (PMF) sponsorizzate dall’Iran – il 4 gennaio non ha lasciato al Primo Ministro Sudani altra alternativa se non quella di chiedere a Washington di fare le valigie e sgomberare l’area” ma al contempo “l’Iran considererebbe il ritiro degli Stati Uniti dall’Iraq una vittoria importante”. E azioni come quella di stanotte, in un certo senso, non aiutano a chiarire il campo effettivo sulla natura gradita o meno della presenza di Washington. Costretta a reagire alle mosse altrui più che a perseguire una grande strategia. Ergo a navigare a vista. Aggiungendo incertezza a incertezza nel Grande Medio Oriente in cui sono Paesi più spregiudicati come l’Iran che riescono a dare su molti tavoli le carte. E definire le regole del gioco.