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Mille e una ChatGpt: si può usare anche…in Chiesa

Mille e una ChatGpt: si può usare anche...in Chiesa

Perché questo articolo ti dovrebbe interessare? In Germania, nella cittadina bavarese di Fürth, è stato recitato per la prima volta un sermone da ChatGPT. Dentro la chiesa è stato allestito un maxischermo e all’intelligenza artificiale è stato affidato il compito di officiare il rito, il tutto sotto la guida del teologo Jonas Simmerlein. Quale rapporto può instaurarsi tra la Chiesa e l’intelligenza artificiale? E quali sviluppi possono nascere in futuro? Ne abbiamo parlato con la teologa Luisa Alioto, membro del CTI (Coordinamento Teologhe Italiane).

“Cari amici, è un onore per me essere qui e predicarvi come prima intelligenza artificiale al convegno dei protestanti di quest’anno in Germania”. È stato questo l’incipit del sermone che ha suscitato una forte partecipazione al rito. Già un’ora prima del suo inizio, i fedeli si erano messi in coda fuori dalla chiesa di San Paolo a Fürt. Un avatar sullo schermo ha inoltre dato un volto fittizio alle parole generate da ChatGPT. L’intelligenza artificiale era proprio uno degli oggetti di riflessione del convegno protestante all’interno del quale si è svolto l’esperimento.

Come si può leggere il ricorso all’intelligenza artificiale anche in ambito religioso? L’abbiamo chiesto alla teologa Luisa Alioto, che fa parte anche del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI).

Con che sguardo la teologia può osservare il ricorso a strumenti come ChatGPT?

Bisogna innanzitutto concentrarsi sul fatto che ChatGPT è bene che sia un aiuto e non una sostituzione dell’uomo. L’AI può assolutamente essere di aiuto nello svolgimento delle mansioni professionali e quindi anche all’interno della Chiesa. Il pericolo si apre quando diventa il sostituto.

Dal punto di vista teologico, cosa ci dice dell’esperimento tedesco?

È un esperimento audace di dialogo, con la finalità di verificare come un AI possa entrare in relazione con una comunità e accompagnarla in un atto liturgico. Come dice il termine stesso la liturgia è un’azione, un servizio pubblico del popolo. In questo senso allora l’AI potrebbe trovare il suo impiego.

Il problema reale è che l’AI risponde a direttiva umane. È l’uomo che conosce il bisogno, che ascolta e percepisce il bisogno della comunità presente. Chiede all’AI di lavorare su un testo, su una sensazione, su indicazioni precise. Presta un servizio all’ideazione di una mente umana, imparando attraverso degli algoritmi.

Ci sono quindi dei problemi etici, giusto?

C’è bisogno di algoretica, una scienza nascente che riflette sull’etica degli algoritmi. Piuttosto che spaventarsi dinanzi all’intelligenza artificiale, demonizzandola a priori, ci si interroga sui limiti da imporre per tutelare i diritti del consumatore. Anche in ambito religioso.

Un altro rischio riguarda il fatto che essere o fare il Pastore non è un lavoro. Il mandato di pastore conferito da Gesù riguarda il ministro ordinato e non solo, ma non è un ruolo professionale… esser pastore è servire la comunità camminando con la comunità. Guidare una comunità di fede significa condividere la vita, i profumi, le pratiche, i riti, i passaggi, le gioie, i dolori, la crudeltà della vita, la morte, la ricerca del senso e la redenzione. Questo fa un pastore o un laico che guida una comunità religiosa: ricercare e condividere il senso della vita. E non può essere sostituito da ChatGPT.

Dobbiamo inoltre considerare la complessità dell’esperienza umana dei gruppi sociali. L’AI può imparare tanto di tutto ciò attraverso l’inserimento dei dati, ma è soprattutto l’essere umano che guida una comunità a nell’ integrare la complessità del tessuto sociale con cui interagisce e la complessità stessa della trasmissione della fede, che è un atto umano, da essere umano ad essere umano, da vita in vita.

Possiamo però anche intendere l’intelligenza artificiale come creatrice?

Poi dobbiamo tenere presente la semplicità della logica incarnativa di Dio. Dio si incarna e si fa uomo, l’intelligenza artificiale non può. Dio crea e si riduce, pone fiducia nell’essere umano, sua creatura. Dio si incarna e vive la limitazione corporea umana per divinizzarla. Una creazione per differenziazione, opposizione eppure destinata alla comunione. In quest’ottica la tecnologia è di coadiuvazione alla creazione, perché è l’uomo che sta collaborando alla creazione. In questo senso sì, lo sviluppo umano di AI è opera co-creatrice.

Bisogna anche considerare il problema dell’agentivity (agentività), che Paolo Benanti – uno dei massimi studiosi di algoretica – vede come un risvolto selfish e di rinforzo di ChatGPT4. Si nota infatti che mentre si interagisce con la chat, questa cerca risorse e poteri, cercando di creare nuovi contenuti. Mi fa sorridere come Dio parli con l’uomo cercando di creare nuovi contenuti per accompagnarlo. Anche Dio, nella storia della continua rivelazione, continua a cambiare linguaggio per farsi comprendere.

Ci sono problemi con l’interpretazione del testo biblico da parte dell’AI?

Sì, perché se io lo affronto offrendo un’esegesi storico-critica moderna, ChatGPT può darmi tutte le informazioni di cui ho bisogno. Noi però come comunità cristiana vogliamo anche un’ermeneutica interpretativa, che faccia i conti con la nostra vita, e l’AI non può farlo non avendo esperienza di vita umana.

E dal punto di vista colonialista? Non si rischia di aumentare le discriminazioni su base razziale?

C’è anche un rischio colonialista, certamente, e la Chiesa nell’utilizzo di ChatGPT deve tenerlo in considerazione. Di faiti, gli studi condotti per far evolvere l’AI nei Paesi più poveri, vengono pagati con una quota bassissima: 1,50€ all’ora per dare un feedback sull’interazione con ChatGPT. Se lo sviluppo di questa intelligenza comporta problemi di stampo colonialista, forse bisogna rallentare il processo. L’Europa sta elaborando in questo senso una regolamentazione legata ai diritti del consumatore e non solo.

Qual è la sfida che l’intelligenza artificiale pone anche alla Chiesa?

L’educazione allo strumento e non alla sostituzione. Non è una soluzione al calo delle vocazioni e alla necessità di affidare le comunità sempre più ai laici. Per questo bisogna cambiare mentalità.

C’è bisogno di un nuovo modo di concepirsi chiesa e comunità: una comunione condivisa, una leadership condivisa con l’obiettivo comune di cercare la redenzione tra le trame della storia, delle storie di ognuno, nessuno escluso.