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Disease first: il modello innovativo di ricerca e sviluppo di Vertex

Federico Viganò, country manager Vertex

L’impatto sottostimato dell’esplosione dei costi di energia e materie prime nel comparto dei farmaci orfani, le alternative alla “crisi degli oppioidi” negli Stati Uniti per la terapia del dolore e ancora le difficoltà europee sul fronte delle terapie avanzate. Soprattutto l’approccio innovativo disease first con la maggioranza degli investimenti rivolti a ricerca e sviluppo per fare davvero la differenza nella cura di malattie rare e non solo.

Di questo e molto altro ha parlato a True-News.it Federico Viganò, country manager di Vertex Pharmaceuticals, società biofarmaceutica statunitense.

Qual è il ruolo di ricerca e sviluppo per un’azienda disease first?

Normalmente l’approccio di ricerca e sviluppo è un approccio duale: o si sfrutta la ricerca di base, fatta principalmente a livello accademico, applicando poi delle regole di drug design, oppure si cerca di acquisire delle piattaforme tecnologiche per poi applicarle a diverse patologie. Il primo modello è quello tipico delle multinazionali dei primi anni Duemila; l’altro è quello che utilizza l’mRna messaggero applicato a diverse patologie.

Invece il vostro?

Il nostro approccio è opposto: noi identifichiamo le aree terapeutiche in cui c’è maggior bisogno e studiamo le patologie. Una volta conosciuta a livello profondo la biologia di queste patologie, cerchiamo l’approccio terapeutico e la piattaforma tecnologica utile, normalmente attraverso delle partnership.

Ci può fare un esempio?

Sulla fibrosi cistica abbiamo una partnership con Moderna. Per la beta-talassemia presentiamo la tecnologia CRISPR di gene editing, un prodotto che attualmente è in valutazione dell’Ema. Quindi lavoriamo così: prima la patologia, poi la relativa piattaforma. Un metodo che ha un impatto sui costi. Il 70% delle nostre spese operative è allocato nei centri di sviluppo quando la media del settore si aggira attorno al 55% per le aziende biotech e al 37% per le società big pharma. Questo ci consente di avere prodotti solo ad altissima innovazione. Non perseguiamo linee di ricerca già battute da altre aziende.

A proposito di terapie avanzate, la vostra è una realtà statunitense. In Europa c’è un dibattito abbastanza acceso su questo fronte. Che ne pensa?

A livello europeo siamo ancora in fase preliminare ed è quindi difficile fare una valutazione definitiva.  C’è bisogno in generale di uno shift di mentalità riguardo alle terapie avanzate. È vero che rappresentano un costo e, se consideriamo la spesa per paziente, un budget sicuramente importante per il sistema sanitario nazionale. Però è anche vero che le stesse sono l’esempio iconico di un investimento. La spesa delle terapie avanzate, soprattutto quelle che possono cambiare il percorso di una patologia, hanno un impatto sui costi che si protrae nel tempo, potenzialmente per decine di anni, se non per l’intera vita del paziente.

Anche recenti convegni hanno fatto emergere alcune critiche nei confronti delle istituzioni europee per quella che è stata definita una “perdita di terreno”, per alcuni paletti che stanno emergendo.

Sicuramente in questo ambito gli Stati Uniti hanno una visione più flessibile, ma anche lì sono in una fase embrionale. Il punto su cui noi vogliamo sempre spingere è quello di valutare l’investimento. E non solo il costo iniziale. Perché l’investimento in molti casi diventa positivo per la comunità e quindi va valutato con una mentalità diversa.

A proposito di costi, la pandemia prima, la crisi energetica poi e quella delle materie prime: che impatto c’è stato per la vostra azienda? Consideriamo che voi vi occupate di farmaci salvavita.

Nel nostro caso i prezzi sono negoziati con Aifa, quindi, per definizione, non sono sensibili alle fluttuazioni di mercato. Abbiamo poi assorbito l’aumento dei costi dell’energia e, in alcuni casi, delle materie prime come azienda. Questa è una circostanza che per il comparto farmaceutico, soprattutto per quello legato all’innovazione con farmaci a prezzi fissi e negoziati, è un po’ sottostimato.

In che senso?

Nel senso che viene dato per scontato che l’industria sia in grado di assorbire questi aumenti. Ma, contrariamente ad altre aree merceologiche, non vogliamo e non possiamo trasferire questi incrementi sull’acquirente finale, che in questo caso è il Servizio sanitario nazionale. L’impatto, tuttavia, potrebbe verificarsi dal punto di vista della qualità della cura del paziente.

Malattie rare e farmaci orfani: perché è importante investire in questo settore?

Focalizzandoci su aree in cui c’è un unmet medical need molto alto, le malattie rare rappresentano un settore dove questo bisogno è fortissimo. Dipende dalla patologia, ma il nostro approccio a ricerca e sviluppo può fare la differenza in modo significativo in questo ambito. Legandosi all’approccio disease first, l’azienda si è infatti presa carico di studiare alcune patologie approfonditamente per trovare soluzioni condivise.

Come nel caso della fibrosi cistica che citava prima.

Questo è un esempio molto importante: non solo abbiamo creato delle soluzioni che hanno cambiato la qualità e l’esistenza stessa dei pazienti, ma siamo tra le istituzioni che hanno la maggiore conoscenza scientifica della fibrosi cistica come patologia. E questo ci ha permesso di essere competitivi.

La vostra ricerca si sta concentrando anche sulla terapia del dolore. Alla luce della “crisi degli oppioidi” scoppiata in particolare negli Stati Uniti, come state procedendo?

Negli Stati Uniti, molto meno in Europa anche per i diversi meccanismi prescrittivi, è in corso una problematica significativa sull’utilizzo degli oppioidi. E non solo per la terapia del dolore, ma anche in contesti che sfociano in situazioni di dipendenza dei pazienti. L’azienda ha sviluppato delle smart molecule con un approccio più tradizionale che permettono, in via preliminare, dei risultati simili a quelli ottenuti dagli oppioidi nel controllo del dolore, ma senza gli effetti collaterali e i problemi di dipendenza e di utilizzo improprio.

Avete in cantiere anche una terapia cellulare per il diabete di tipo uno. In cosa consiste?

È una linea di ricerca che sfrutta le cellule staminali. Il tentativo dei ricercatori di Vertex è quello di ricreare una funzionalità pancreatica, ovvero diminuire la necessità di un sussidio con insulina. Siamo agli inizi, ma abbiamo già avuto una validazione preliminare. Per la prima volta potremmo utilizzare le cellule staminali per riprodurre la funzionalità di un organo che, nel caso del diabete di tipo uno, è compromessa per sempre. In questo modo i pazienti affetti da diabete potrebbero quanto meno diminuire la dipendenza dall’insulina. È un obiettivo visionario. Confidiamo nelle ricerche cliniche.

Quali sono le principali urgenze e sfide che a suo parere le istituzioni italiane devono fare proprie in materia sanitaria?

Bisogna focalizzarsi sulla gestione e sul numero delle terapie avanzate, che è destinato ad aumentare. Gli enti regolatori e le agenzie che valutano il prezzo dei farmaci devono avere un approccio in linea con l’innovazione, con il paradigma dei nuovi trattamenti. È necessario trovare le modalità e un linguaggio comune perché queste terapie sono trasversali e sempre più numerose.