Home Economy La piaga della migrazione sanitaria: chi dal Sud va a curarsi al Nord

La piaga della migrazione sanitaria: chi dal Sud va a curarsi al Nord

fondi per la sanità

Perché questo articolo potrebbe interessarti? La migrazione sanitaria è un fenomeno sempre più diffuso: si lascia il Sud per farsi curare al Nord, acuendo il divario tra le due macro aree del Paese sotto il profilo della tutale della salute. Una circostanza che, in tempi di autonomia differenziata, è destinata a diventare un caso anche politico.

Un’Italia spaccata in due rappresenta spesso l’immagine più evocativa del nostro Paese. Al pari di quella relativa alle migrazioni dal meridione al settentrione, circostanza quest’ultima costante nel corso della nostra storia unitaria. C’è però un aspetto che sta uscendo fuori negli ultimi anni. Si tratta, in particolare, della migrazione sanitaria. Il viaggio cioè intrapreso da molti cittadini del Sud Italia per ricevere cure nelle regioni del Nord. Un fenomeno sempre più in crescita e che è stato possibile quantificarlo nel valore di  4.52 miliardi di Euro. Tanto, secondo la fondazione Gimbe, le regioni del Nord avrebbero guadagnato nel 2021 grazie all’arrivo di pazienti dal maggiorno.

I numeri che dimostrano la migrazione sanitaria

La fondazione Gimbe, nota soprattutto per le valutazioni effettuate durante l’era della pandemia, da anni è impegnata nel monitoraggio della sanità pubblica. I dati relativi alla migrazione sanitaria hanno fotografato una netta spaccatura tra Nord e Sud. Dal Mezzogiorno si parte sempre di più per cercare di avere cure più adeguate in altre regioni.

La cifra complessiva sopra esposta rende solo in parte l’idea del fenomeno. Secondo Gimbe, nel 2021 il divario tra le varie aree del Paese in ambito sanitario è notevolmente aumentato. La fondazione è arrivata a questa conclusione analizzando il saldo, regione per regione, tra mobilità attiva e mobilità passiva. Con il primo termine si intende la capacità di attrazione di pazienti da una regione diversa, con il secondo invece per l’appunto la migrazione sanitaria. Il numero cioè di persone che lasciano la propria regione di residenza per curarsi altrove.

La classifica relativa alle venti regioni non ha prodotto sorprese. Nella fascia cosiddetta del “saldo positivo rilevante”, si trovano Emilia Romagna, Veneto e Lombardia. Le tre regioni cioè rinomate proprio per avere i migliori sistemi sanitari italiani. La Lombardia, in particolare, attrae il 18.7% dei pazienti che scelgono di curarsi al di fuori della propria regione. L’Emilia Romagna invece, in questa speciale classifica, si attesta subito dietro con il 17%, infine il Veneto attrae il 12% dei migranti sanitari. Le tre regioni da sole assorbono più del 50% delle preferenze di coloro che in Italia optano per le cure distanti da casa.

Se ci sono regioni con un saldo di mobilità attivo, ci sono evidentemente regioni con un saldo negativo. Per un territorio che accoglie, ce n’è sicuramente uno da cui si parte. Per capire quali sono le regioni da cui si origina la migrazione sanitaria, occorre individuare la fascia cosiddetta del “saldo negativo rilevante”. All’interno sono situate Abruzzo, Puglia, Sicilia, Lazio, Campania e Calabria.

La spaccatura tra le due macro aree del Paese è quindi ben evidente: dal Sud si parte per andare a ricoverarsi al Nord. Come sottolineato da Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe, il fenomeno è in costante aumento. I dati in questione, resi noti nei giorni scorsi, si riferiscono al 2021. Nell’anno precedente, quello caratterizzato dal Covid, la migrazione sanitaria aveva fatto registrare dati inferiori. Il guadagno complessivo per il Nord si era infatti fermato a 3.3 miliardi di Euro.

Il rischio (scongiurabile) dell’autonomia differenziata

La questione relativa alla migrazione sanitaria sembra però destinata ad andare oltre l’ambito strettamente legato alla salute. Il dossier potrebbe infatti assumere anche connotazioni politiche. I dati diffusi da Gimbe, hanno contribuito a dare al meridione l’immagine di area abbandonata e periferica. Lì dove cioè la quantità e qualità dei servizi è destinata a diminuire nel corso degli anni. Con la sanità che, da questo punto di vista, appare come soltanto uno dei problemi strutturali del Sud. Al pari dei trasporti, dei servizi e dell’istruzione.

Dal Mezzogiorno si elevano così voci preoccupate in relazione al progetto dell’autonomia differenziata, portata avanti dall’attuale esecutivo e da molti visto come una sorta di compensazione politica data dal presidente del consiglio, Giorgia Meloni, agli alleati della Lega. Il timore, in particolare, è che una maggiore autonomia delle regioni porti ulteriori guai per le aree già oggi penalizzate. Specie soprattutto nel comparto sanitario.

“Il progetto sull’autonomia concede alle Regioni che danno allo Stato più di quanto ricevono (tutte al Nord), la possibilità di trattenere più gettito fiscale – ha scritto nei giorni scorsi in una nota il segretario di Anaao Assomed, Pierino Di Silverio – Un extra finanziamento stimato in circa 10 miliardi che potrebbe alimentare prestazioni sanitarie aggiuntive per i loro cittadini, una sorta di LEPs di prima categoria, rendendo la tutela della salute funzione del reddito e della residenza”.

“In violazione del principio costituzionale di uguaglianza – ha proseguito Di Silverio – chi risiede in Regioni “forti” si curerà, gli altri potranno solo aspettare in liste di attesa che ormai si misurano in semestri se non in anni. O migrare”. In poche parole, se già oggi si emigra, è la preoccupazione espressa nella nota, domani si potrà emigrare ancora di più. Con l’Italia che, sotto il profilo della tutela sanitaria, rischia di essere sempre più divisa.

Un gap legato anche alla fiducia

C’è però anche un dato interessante relativo alla qualità delle strutture sanitarie nel Sud. Nella classifica sui migliori ospedali in Italia nell’anno passato, stilato da Newsweek, emergono alcune sorprese tra i 13 ospedali specializzati presi in considerazione. Al primo posto si è piazzato il Pediatrics A.O.R.N. Santobono Pausilipon di Napoli. Il capoluogo partenopeo può vantare anche, tra le strutture specializzate considerate più funzionali in Italia, la presenza dell’Istituto Nazionale dei tumori.

Al contrario, la Campania e le altre regioni del Sud faticano nel far piazzare i propri ospedali ai primi posti tra le strutture generiche. Anzi, gli istituti del Sud sono nei bassifondi della classifica. Segno quindi di un elemento importante da considerare quando si parla di sanità nel Mezzogiorno: non mancano le strutture di eccellenza, tuttavia la carenza strutturale riguarda la capillarità totale dei servizi sul territorio.

Ci sono cioè poche cattedrali nel deserto, con poche strutture di eccellenza incastonate in un sistema complessivamente poco adeguato, specie se paragonato al nord. La qualità non eccellente dei servizi nel loro complesso, potrebbe quindi offuscare anche le eccellenze. E questo apre un altro capitolo nel discorso: ossia la possibilità che, dietro il fenomeno della migrazione sanitaria, si nasconda anche una cattiva percezione del sistema da parte dei cittadini.

Cosa serve per evitare la migrazione sanitaria

Si parte non solo perché non ci sono strutture, ma anche perché si sottovalutano le eccellenze presenti da Napoli in giù. Almeno è questo il parere espresso da Salvatore Requirez, dirigente generale del Dasoe dell’assessorato alla salute della Regione Siciliana: “Stiamo affrontando un problema spinoso – si legge in una dichiarazione rilasciata in un convegno sulla sanità organizzato a Palermo nei giorni scorsi – Nella nostra regione esistono vere e proprie eccellenze nel campo della sanità, la cui conoscenza però sfugge a troppi”. I numeri dell’Agenas, in particolare, dimostrerebbero come molti siciliani e campani si rivolgono a strutture ospedaliere del Nord pur avendo già nei propri territori i servizi richiesti. La cui qualità, in alcuni casi, non è inferiore a quella dei servizi erogati al Nord. La migrazione sanitaria sarebbe quindi (anche) una questione di immagine.